Corriere della Sera, 16 febbraio 2015
Gli interessi italiani in Libia, anche dopo la rivoluzione del 2011, restano sostanzialmente legati all’energia: petrolio e gas, ovviamente, ma molto meno rispetto a qualche anno fa, anche se uno stop improvviso alle importazioni da Tripoli qualche guaio lo potrebbe creare
Petrolio e gas, ovviamente, ma molto meno rispetto a qualche anno fa, anche se uno stop improvviso alle importazioni dalla Libia qualche guaio lo potrebbe creare. Gli interessi italiani in Libia, anche dopo la rivoluzione del 2011, restano sostanzialmente legati all’energia. I progetti di costruire strade o infrastrutture come si immaginava nel 2009 quando il governo Berlusconi introdusse la «libyan tax» sull’Eni per favorire le opere di «riparazione» postcoloniali, restano arcisepolti nei cassetti. Oggi, per l’Italia, la Libia significa importazioni di petrolio che lo scorso anno (dati Unione petrolifera) si sono mantenute tra il 6 e il 7% del totale. Sono numeri lontani da quelli del passato recente. Nel 2008 dalla costa libica arrivava il 30% del greggio consumato in Italia. Nel 2013, quando la Libia aveva ripreso in parte la produzione prerivoluzione, si era al 14%. Certo, ci sono alti e bassi: negli ultimi mesi 2014, quando la tregua dell’estate ancora funzionava, l’export libico di petrolio si è risollevato, e in parallelo anche le importazioni italiane. Ma ora le interruzioni potrebbero riprendere su più larga scala, se si pensa alle notizie su attacchi delle fazioni Isis verso i giacimenti di Dahra, e ai tentativi di bloccare gli oleodotti che portano il greggio verso i porti dell’est (Tobruk, Es Sider, Ras Lanuf). Quasi inutile ricordare che è la vendita del petrolio, in modo legale o sottobanco, a finanziare le parti in guerra. Nel profondo est libico, a centinaia di chilometri dalla costa nel deserto cirenaico, si trovano soprattutto le concessioni delle compagnie americane, come Exxon e ConocoPhillips, uscite dalla Libia dopo i bombardamenti reaganiani del 1986 e rientrate poi nel 2005-06. L’Eni, in Libia dal 1959, da quelle parti ha solo lo «storico» giacimento di Bu Attifel. Ma il Cane a sei zampe, il principale interesse italiano nella ex Jamahirya, i suoi campi li ha soprattutto a ovest, che per ora pare relativamente più calmo. Nelle acque di fronte a Tripoli c’è Bouri; più a sud, vicino al confine con l’Algeria, c’è Wafa; nel Murzuk, ancora più in profondità, Elephant. Da Bouri e Wafa, per intendersi, arriva il gas che viene «spedito» in Italia con il gasdotto Greenstream che approda a Gela. Per il momento il Greenstream marcia a regime regolare, una ventina di milioni di metri cubi al giorno (contro i 90 dalla Russia) che rappresentano circa il 9% del fabbisogno annuo italiano. I postumi della crisi fanno sì che il gas, sui mercati internazionali, sia ancora abbondante e a buon mercato. Una crisi libica, insomma, sarebbe fronteggiabile. Ma non va dimenticato che il primo fornitore di gas all’Italia, e il secondo di petrolio (dopo l’Azerbaigian), è la Russia. E le relazioni con Mosca sono quelle che sono.