Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2015
L’addio della Grecia all’euro minerebbe la credibilità della Bce. Se un Paese lasciasse l’Eurozona, S&P abbasserebbe il giudizio sulla Banca centrale europea. E, a cascata, anche quello dell’Italia
Ammesso che l’intera euforia, vista ieri sulle borse europee, così come il moderato ottimismo sui titoli di Stato, siano da ascrivere alla concreta speranza di una soluzione nella crisi ucraina, resta il fatto che i mercati finanziari d’Eurozona si curano assai poco del rischio Grecia. Anche perché, da questo fronte, non è uscita alcuna buona notizia. Sebbene Goldman Sachs calcoli una correlazione positiva tra l’andamento dei rendimenti dei titoli greci e quello dei titoli italiani e portoghesi, quella corrispondenza (al 40% per i Btp dal 2012) è piuttosto tenue e ancor meno si rispecchia nell’umore degli investitori. Ad essere sinceri, la correlazione diventa addirittura negativa da settembre ottobre dello scorso anno, quando il rendimento del decennale greco comincia ad impennarsi e quello del Btp accelera invece la discesa.
Può darsi che il mercato sottovaluti i rischi di un fallimento di Atene e di una eventuale sua uscita dall’euro: un po’ perché la maggior parte degli operatori crede che una soluzione di compromesso sarà trovata entro fine mese e un po’ perché anche chi ritiene inevitabile la Grexit (circa un quarto degli operatori), giudica l’evento non così catastrofico. Se Ubs, giorni fa, aveva dipinto a fosche tinte la possibile bancarotta della Grecia (ipotesi cui la stessa banca credeva poco), ieri l’analisi di Barclays stemperava alquanto le possibili drammatiche conseguenze. Quale delle due analisi sia più realistica è cosa che si vorrebbe non sapere mai. Si può solo dire che lo studio di Barclays rispecchia meglio il relativo ottimismo dei mercati. In ogni caso, le conseguenze della Grexit si farebbero sentire. Ma sarebbero gestibili: perché, a differenza del 2012, le banche hanno ridotto l’esposizione verso la Grecia (26,5 miliardi sui 330 totali), perché le economie dei Paesi periferici sono messe un po’ meglio, perché i rendimenti dei bond governativi sono bassi e, soprattutto, perché la Bce è più attrezzata (vedi Omt) e c’è il quantitative easing di Mario Draghi.
L’ultima considerazione è quella più rassicurante e ci rimanda a uno studio di Standard & Poor’s uscito mercoledì. L’agenzia di rating attribuisce alla Bce il giudizio più alto, soprattutto grazie alla «credibilità» e all’«efficacia» della sua politica monetaria. E, par di capire, che forse avrebbe mutato parere se la banca centrale non avesse deciso di varare il suo corposo Qe. E, a cascata, avrebbe rivisto al ribasso pure i rating sovrani di alcuni Paesi. Ma, avverte S&P: se qualcosa andasse storto, sarebbe inevitabile peggiorare il giudizio sulla Bce.
In quali casi? Se non si riuscisse a contrastare la deflazione; se qualche «vincolo legale» insorgesse a limitare gli strumenti della Bce. Infine, la sorpresa: se qualche Paese dovesse lasciare l’Eurozona. Ed ecco che l’eventuale uscita dall’euro della Grecia, rappresenterebbe per S&P l’innesco di una possibile revisione al ribasso dei rating sovrani, con la conseguenza che quello dell’Italia calerebbe a spazzatura. Se la Grecia lascia l’euro, chi sarà il prossimo? Se lo chiedono anche Barclays e Goldman Sachs. Questa prospettiva, più che il possibile e (forse) limitato contagio, sarebbe il vero fattore destabilizzante.