la Repubblica, 13 febbraio 2015
Che sia il «nuovo Kennedy» o la «cancelliera del mondo», la Merkel è diventata l’icona di un’Europa in cerca di un’identità. In soli tre giorni ha visitato sette capitali, percorso 25mila chilometri per incontrare con una decina di leader, ha sbloccato un accordo tra la Grecia di Tsipras e la troika e mediato una tregua nella guerra in Ucraina
Ha fatto 25mila chilometri in tre giorni, visitato sette capitali, discusso con i leader di Stati Uniti, Russia, Ucraina, Iraq, Canada, Bielorussia. Dopo sedici ore di negoziato estenuante ha mediato una tregua nella guerra in Ucraina. Con un sorriso e una stretta di mano ha sbloccato un accordo tra la Grecia di Tsipras e la troika europea. Il New York Times parla di lei come del «nuovo Kennedy». Il quotidiano Bild la definisce «cancelliera del mondo». Piaccia o non piaccia, Angela Merkel è diventata l’icona di questa Europa in cerca di identità: il volto di un potere indefinito, enigmatico e indecifrabile come il suo sorriso.
La leadership della cancelliera è certo dovuta alla predominanza economica della Germania. Ma altrettanto certamente non solo a quella. Il ministro greco delle Finanze Yanis Varoufakis, non un suo amico, l’ha definita «di gran lunga il politico più perspicace d’Europa»: un giudizio condiviso, più o meno volentieri, in tutte le cancellerie dell’Unione e non solo. Se Putin chiama la Merkel piuttosto che Hollande quando c’è una crisi da risolvere, non è solamente perché con lei può parlare russo. Se Obama le chiede consiglio sulle grandi questioni internazionali, invece di rivolgersi al premier britannico Cameron, non è certo per merito del suo inglese piuttosto scolastico. Il fatto è che Angela Merkel studia, impara, è informata, competente. Ma soprattutto ha una capacità ineguagliata di tenere insieme l’eterogenea congrega dei leader europei. E questo le conferisce un potere di fatto che nessuno, prima di lei, era mai riuscito a costruire nel Vecchio Continente.
Nei rapporti con la Russia e nella difficile emergenza della guerra civile ucraina, la cancelliera ha saputo smorzare gli ardori bellicosi dei polacchi e dei baltici, ma ha anche obbligato i Paesi tradizionalmente filorussi a tenere la schiena dritta e a votare sanzioni economiche dolorose. Nella crisi mediorientale è riuscita a fermare i bombardieri americani già pronti a colpire Damasco. Nella lunga e travagliata odissea dell’euro ha saputo conciliare le eccessive rigidità dei “falchi” nord-europei, egemoni nel suo stesso partito, ma anche dare il via libera ai coraggiosi interventi di Draghi e della Bce nonostante le proteste della Bundesbank. Ha costretto i riottosi governi di Francia, Italia, Spagna a correggere i propri bilanci, ma ha anche accettato la nuova flessibilità proposta da Juncker e la creazione di una unione bancaria che il suo ministro delle Finanze vedeva come il fumo negli occhi.
Paradossalmente, il potere di Angela Merkel non si fonda sul fatto di vincere tutte le battaglie, ma sulla sua capacità di fare un passo indietro e di adeguarsi, quando è necessario, alla predominante opinione degli altri europei. È questa sua inesauribile capacità di ascoltare, di mediare, e alla fine di trovare compromessi che ha consentito alla Germania di affermare la propria leadership in Europa senza suscitare quelle reazioni di rigetto viscerale che hanno contraddistinto, nei secoli, la “questione tedesca” troppe volte risolta nel sangue.
Ormai questa leadership ha acquisito anche una raffinata capacità di rappresentazione scenica. È a Firenze al fianco di Renzi nel momento in cui il premier italiano affronta in parlamento la fase più difficile delle riforme. È a Parigi a braccetto con Hollande nella grande manifestazione contro il terrorismo islamico. È a Berlino, in piazza con i “suoi” tedeschi, per respingere l’estremismo islamofobo. Stringe la mano a Putin e subito dopo a Obama quando i due, ormai, sembrano incapaci di comunicare se non attraverso la sua mediazione. Però è anche l’unica capace di alzare la voce quando Mosca viola gli accordi o quando Washington viene colta con le mani nel sacco a spiare gli alleati europei.
Naturalmente questo enorme potere non ha alcuna legittimazione democratica, se non quella conferitale da ottanta milioni di tedeschi. I cinquecento milioni di europei che lei di fatto rappresenta e governa non l’hanno scelta, non l’hanno eletta, non le hanno conferito nessun mandato se non la preminenza che le è unanimemente riconosciuta dagli altri ventisette capi di governo. E questo è indubbiamente il più grave problema, politico ma anche morale, che l’Europa si trova ad affrontare. La leadership di Angela Merkel fotografa l’incompiutezza del progetto europeo. Ma è anche, paradossalmente, l’unica speranza che l’Europa ha di colmare questo deficit democratico.
È stata Angela Merkel che, superando le sue stesse perplessità, ha accettato che le ultime elezioni europee diventassero anche una consultazione sul nome del presidente della Commissione. Ed è stata sempre Angela Merkel, superando il veto britannico, a sostenere con coerenza la candidatura di Jean-Claude Juncker alla guida del governo europeo nonostante i rapporti tra i due siano sempre stati storicamente difficili. Nei dieci anni in cui ha governato la Germania, la cancelliera ha tradito molti lasciti dell’eredità affidatale dal suo “padrino” Helmut Kohl, che infatti non le risparmia critiche anche amare. Ma ha comunque tenuto salda la visione e la speranza che l’unione economica e monetaria possa, alla fine, sfociare in una vera unione politica. È una visione tipicamente tedesca, e in parte italiana, lontana dalla sensibilità francese di una “Europa delle patrie”, e da quella britannica di una comunità puramente economica e commerciale. Se in un futuro non troppo lontano quel traguardo sarà finalmente raggiunto, si può star certi che sarà grazie alla capacità di mediazione e di leadership della cancelliera.