Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  febbraio 13 Venerdì calendario

«Il nemico numero uno è il nostro cervello». Parola di Henri Chenot, l’inventore del metodo detox: «Quando arriviamo alla vecchiaia, lo abbiamo riempito di così tante cose inutili, luoghi comuni, credenze religiose, falsi bisogni e false certezze. Ciò che conta davvero è mettere ordine». Ritratto di un settantaduenne che non vuole apparire giovane ma «solo essere vivo»

L’uomo che ha inventato il metodo detox («più sani, più giovani, più magri», è il sottotitolo di uno dei suoi ultimi libri) durante le due ore di intervista non parla mai di calorie e di alimenti. Se nomina il cibo, è solo per l’ordinazione al ristorante (è l’ora di pranzo): puntarelle senza parmigiano, «ho una leggera allergia al latte», tonno scottato, un bicchiere di rosso, niente caffè. Dal punto di vista professionale, oggi il cibo sembra interessargli poco. A marzo compie 72 anni e ha altro per la testa. «Questa stronzata del dimagrimento...», dice quando tocchiamo il tema che lo ha reso celebre (e nella volgarità dell’espressione c’è tutta la distanza che ha messo fra sé e ciò che non ha più il carattere dell’urgenza, dell’indispensabilità). «Quando arriviamo alla vecchiaia, abbiamo riempito il nostro cervello di così tante cose inutili, luoghi comuni, credenze religiose, falsi bisogni e false certezze. Ciò che conta davvero è mettere ordine. Se vogliamo accogliere la vecchiaia, non ci rimane altro da fare», dice, ed è bello questo verbo che usa, accogliere, perché dà il senso di un tempo da vivere in piedi, scegliendolo, non a capo chino. Bisogna sgombrare le stanze, insiste, buttare via, «il nemico numero uno è il nostro cervello: se è ingolfato, la consapevolezza del tempo che ci rimane non troverà spazio per maturare. La vecchiaia è il momento del perdono, anche dentro il silenzio. Non servono gesti plateali». La vecchiaia, aggiunge, è anche il momento della sintesi.
La buona vecchiaia
Da due anni, spiega, vive in modo diverso. Quando ha compiuto settant’anni ha avvertito che qualcosa era cambiato. Racconta senza angoscia che, dovendo rinnovare il contratto con il Palace Hotel di Merano – quartier generale suo e del suo team, dove dagli anni 80 mette in pratica la terapia di disintossicazione – gli hanno chiesto di sottoscrivere un impegno per altri dieci anni, «perché vogliamo avere la sicurezza che tu resti qui ancora per molto tempo», gli hanno detto. «Ma come faccio a dargliela? – si chiede —. È proprio il genere di certezza che non ci appartiene». E prosegue: «Del resto ho due figli che lavorano con me, debbo lasciare loro un po’ di libertà, non posso sempre essere lì a dettare le regole». È pronto dunque a fare un passo indietro? «Perché indietro? – ribatte quasi stizzito —. Farò invece un passo avanti, come ho sempre fatto, dentro una maggior comprensione di questa nuova fase della mia vita».
E torna l’idea della vecchiaia come un viaggio da compiere con gli occhi ben aperti, con la mente libera di immaginare esperienze nuove, per non perdere il filo, il senso, i dettagli dei giorni che passano. Racconta di come il mantra moderno dell’«eternamente giovani» gli appaia uno sconsiderato insulto alla vecchiaia: «Non è una malattia essere vecchi». Dai ricordi dell’infanzia in montagna, a Sarrancolin, nella zona francese dei Pirenei, ripesca le immagini degli anziani che, dopo una vita nei campi, restavano seduti fuori dalle case, immobili, nostalgici. «Quello sì era aspettare la morte. Io non voglio apparire giovane: voglio essere vivo».
Ha coniato un termine in cui condensa 40 anni di lavoro da equilibrista fra le discipline occidentali e la medicina cinese (sua grande passione, alla quale è arrivato attraverso lo studio del taoismo): biontologia. Che significa che al tempo non si sfugge, che bisogna farci i conti in ciascuna fase della propria vita.
Da niente a tutto
L’infanzia di Chenot è stata senza niente. «Il problema principale, in famiglia, era riuscire a sfamarci. Però ho cominciato a leggere presto». Appena aveva due soldi, li spendeva in libri. Rousseau, Chateaubriand. «Da qualche tempo, ho preso l’abitudine di tornare su quelle letture giovanili. È un bell’esercizio: mostra quanta strada ho percorso, perché la chiave con cui affronto oggi le pagine è completamente diversa da allora. E quando prendi coscienza del cambiamento, capisci che non esiste nulla di assoluto».
Lui, così allergico alle religioni («non riesco a dire: “Padre, ho peccato”. Dobbiamo vivere senza mendicare, mai»), da bambino era chierichetto. Ed era un immigrato. «”Spagnolo di merda”, mi apostrofavano gli altri. E io ridevo. Nessuno è mai riuscito a ferirmi usando questi argomenti». Era un bambino molto curioso, molto responsabile. «Avevo un compagno che a casa veniva picchiato regolarmente. Era sempre pieno di lividi. Anche a scuola succedeva: il maestro lo prendeva di mira. Una mattina l’ho affrontato: “Lei non deve più toccarlo”, gli ho urlato in faccia. Ero davvero pronto a tutto. Non so se sia stato coraggio. Era più un istinto di rivalsa. Se sono riuscito a fare molto nella vita, è perché non mi sono mai sentito una vittima».
A trent’anni aveva già aperto quattro laboratori di fitocosmetica e fitoterapia, aveva un bell’appartamento a Parigi, la governante, la macchina con l’autista. «In breve tempo quell’attività è diventata un mostro ingestibile. Lavoravo come un matto, un giorno mi sono ritrovato in un posto che non riconoscevo, ero cotto. Viaggiavo senza tregua, avevo perso completamente la bussola. Ho capito che ero al capolinea e che, se mi volevo salvare, dovevo cambiare strada». E così comincia la fase numero due della sua vita: quella più legata all’attività di divulgatore delle sue teorie, che gli ha portato grande fortuna, soprattutto in Italia (ricorda ancora sorridendo l’invito di Pippo Baudo a «Domenica In»).
Il gioco a punti
Ogni mattina si alza alle sei, colazione con frutta, «poi a mezzogiorno mi prende una fame nervosa, se avessi della pasta mi ci butterei sopra». Invece si prepara un’insalata «che mi costringe a masticare e mi calma». «Il mio compito – dice – non è far dimagrire, ma educare, perché l’importante nella vita è conoscere: se poi metti in pratica le tue conoscenze o no, è una responsabilità tutta tua». Punta sull’equilibrio fra mente, inconscio e corpo. Mangiare, dormire, depurarsi secondo la biontologia. È convinto che tutto, anche l’attenuarsi delle rughe, passi da qui. Ai 120 anni di vita ci arriveremo, sostiene, «ma prima dobbiamo cominciare a curare la nostra salute, che vuole dire prenderla a cuore, essere disponibili, non cadere in depressione per la stanchezza, per lo stress. Il problema è sempre mentale». La sera si cimenta in un gioco che funziona così: parte da 10 e somma (o sottrae) un punteggio per ciascuna azione buona (o mancata) compiuta durante la giornata. «Se chiudo in parità, non è stato un giorno sprecato».