La Stampa, 13 febbraio 2015
A proposito dei vigili urbani in marcia su Roma per difendere il buon nome di una categoria accusata di accogliere nei suoi ranghi una quota di schettini
Perché, dopo tante belle parole, Renzi non ha ancora fatto le riforme e rottamato gli oppositori? E perché, con sedici anni di condanna sul groppone, Schettino resta a piede libero mentre tanti presunti innocenti vengono sbattuti in carcere durante le indagini preliminari? Sono le classiche domande che un giornalista si sente rivolgere per strada e alle quali non riesce a rispondere con la spiccia sicurezza di un tweet di Salvini. Per togliersi dall’impaccio prova a spiegare che anche un premier risoluto ai limiti della prepotenza è condizionato dai rapporti di forza e costretto a mediare su tutto con tutti. E che la legge prevede il carcere prima della sentenza definitiva soltanto se esiste un effettivo pericolo di fuga o di inquinamento delle prove. Insomma, che la democrazia non è un moto istintivo dell’animo, ma una costruzione complessa e fragile, fasciata da imbracature che si chiamano regole e a volte fungono da sostegno e altre da intralcio.
L’ascoltatore scuote la testa perplesso. Ma con scarsa coerenza, appena dismette i panni del cittadino e torna a indossare quelli della corporazione cui appartiene, si trasforma nel geloso paladino di interessi di parte. E, come i vigili urbani di ieri, marcia su Roma per difendere il buon nome di una categoria accusata di accogliere nei suoi ranghi una quota di schettini. La sensazione è che per l’italiano medio la forma preferita di governo rimanga la Signoria rinascimentale. Un insieme di corporazioni arroccate intorno ai propri privilegi che delegano a un Capo il compito di amministrare la politica e la giustizia, tagliando la testa a chi sbaglia oppure osa anche solo dire beh.