il Fatto Quotidiano, 12 febbraio 2015
Inchiesta Ubi, firme fasulle per controllare la banca. La finanza perquisisce gli indagati: Bazoli, Zanetti e i vertici dell’istituto
Una grande macchina perfettamente oliata per mantenere saldo il controllo sulla banca. Firme falsificate, deleghe in bianco, voti raccolti usando militarmente i dipendenti e le agenzie, ma anche un’associazione artigiani e la Compagnia delle Opere, per assicurarsi la maggioranza nelle assemblee, alla faccia della democrazia e del “voto capitario”. Questo è lo scenario che emerge dall’inchiesta della Procura di Bergamo su Ubi Banca e sui suoi due “padroni”, Giovanni Bazoli ed Emilio Zanetti. Un’indagine delicata, visti i protagonisti; ma anche politicamente sensibile, vista la riforma delle banche popolari messa in campo dal governo Renzi. E con la Consob di Giuseppe Vegas che perde un’altra occasione per dimostrare di vigilare davvero sul mercato.
Ieri il pm di Bergamo Fabio Pelosi ha mandato gli uomini del nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza, guidati dal generale Giuseppe Bottillo, a perquisire una decina di indagati, tra cui Bazoli e i vertici di Ubi: Franco Polotti, presidente del consiglio di gestione di Ubi Banca, Andrea Moltrasio e Mario Cera, presidente e vicepresidente del consiglio di sorveglianza, Victor Massiah, amministratore delegato, oltre a Bazoli e a Zanetti, consigliere di amministrazione della Popolare di Bergamo e della Popolare Commercio e industria. Indagati anche Antonella Bardoni, presidente di Confiab (Consorzio fidi tra imprese artigiane di Bergamo), e Rossano Breno, in passato presidente della Compagnia delle Opere di Bergamo. I reati ipotizzati sono ostacolo alla vigilanza e illecita influenza sull’assemblea (articolo 2636 del codice civile).
Ubi Banca nasce dalla fusione tra Bpu e Banca Lombarda il primo aprile 2007. Ma non è un pesce d’aprile: è il terzo gruppo bancario italiano, con 1.700 sportelli e oltre 18 mila dipendenti. Le due “famiglie” che si sposano quel giorno d’aprile sono quella bergamasca, nata in Bpu e rappresentata da Zanetti, e quella bresciana, erede di Banca Lombarda e con suo massimo esponente Bazoli (che è anche presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo e che si dice del tutto estraneo). Dopo la fusione, sbocciano due associazioni di azionisti: a Bergamo gli “Amici di Ubi”, guidati da Zanetti; a Brescia la “Banca lombarda e piemontese”, presieduta da Bazoli. Secondo l’ipotesi d’accusa, le due associazioni e i loro padri nobili stringono patti segreti, nascosti agli organi di vigilanza (Consob e Bankitalia), per tenere saldo il controllo dell’istituto di credito, alternandosi negli organismi di controllo, ma escludendo “dalla gestione della banca soggetti estranei alle due associazioni”.
Ubi è una società cooperativa, ma quotata in Borsa. Vige, come nelle banche popolari che Renzi vuole riformare, il “voto capitario”: “una testa un voto”, cioè le decisioni nelle assemblee sono prese a maggioranza dai 77 mila soci della banca, il cui voto conta indipendentemente dal numero di azioni possedute. Proprio per questo, sostengono i magistrati di Bergamo, le due associazioni hanno messo a punto una poderosa macchina organizzativa per raccogliere i voti dai soci, escludendo ogni altro concorrente. Il patto raffinatissimo per avvicendarsi al vertice della banca si rintraccia soltanto leggendo con grande attenzione e incrociando tra loro diversi documenti: lo Statuto di Ubi, il Protocollo d’intesa pre-fusione, il Regolamento del Comitato nomine e gli Statuti delle due associazioni di azionisti. Ma poi è la prassi della raccolta delle deleghe per l’assemblea a fare la differenza. Le cose vanno lisce per qualche anno dopo la fusione. Ma nel 2013 – in vista dell’assemblea per il rinnovo del Consiglio di sorveglianza, che poi decide il Consiglio di gestione – si presentano ben due liste alternative: “Ubi banca popolare!”, guidata da Andrea Resti; e “Ubi Banca ci siamo”, che fa riferimento all’ex parlamentare di Forza Italia Giorgio Jannone. Ecco allora che, di fronte al pericolo, il patto stretto nel 2007 mette il turbo. Non c’è partita: la lista numero 1, presentata dalle due associazioni di Bazoli e di Zanetti, vince a mani basse. Ottiene 7.340 voti: 2.800 sono espressi da soci fisicamente presenti in assemblea, ma quasi 5 mila sono deleghe di assenti. Viene eletto il consiglio di sorveglianza con Moltrasio presidente e Cera vicepresidente. Tra le proteste e le denunce degli sconfitti.
Parte l’inchiesta giudiziaria. Nel maggio 2014 la prima raffica di perquisizioni. Ora la svolta. Agli indagati, a partire da Bazoli, viene contestato anche di aver di fatto truccato il risultato dell’assemblea. Nel 2013, per scongiurare il pericolo che altri entrino nella stanza dei bottoni, il patto occulto si manifesta in tutta la sua geometrica potenza. Le strutture, le agenzie, i responsabili di area della banca vengono utilizzati per raccogliere deleghe per la lista 1. Anche all’insaputa dei clienti Ubi a cui si fanno firmare fogli in bianco. Dove non si riesce a raccogliere firme vere, si falsificano. Alla caccia alla delega partecipano anche gruppi esterni alla banca, come Confiab e Compagnia delle Opere. Poi le deleghe sono raccolte a livello centrale e distribuite a chi si presenta in assemblea, per determinare la schiacciante vittoria della lista voluta da Bazoli e Zanetti.
Nella vicenda Ubi ha un ruolo anche la Consob. Avvia un’ispezione alle due associazioni di Bazoli e Zanetti nel settembre 2013 e nel maggio 2014 notifica a Ubi Banca un “atto di contestazione”, che entro 210 giorni deve generare un’archiviazione o una sanzione. Invece non succede niente. Anzi: mentre la procedura è in corso, Vegas incontra i vertici della banca, che si dicono soddisfatti del contatto. Il presidente Consob non trova evidentemente nulla di anomalo nell’incontrare un soggetto vigilato sotto contestazione.