La Stampa, 12 febbraio 2015
Il boom dell’Università Popolare tra scacchi, inglese ed egittologia. Ci va il detective che vuole imparare l’arabo e il manager che studia oratoria
Alle sette di sera la coda davanti a Palazzo Campana, a Torino, cresce a vista d’occhio. C’è chi si stringe nel cappotto e parla con il vicino. Chi, più giovane e solitario, indossa cuffie taglia Topo Gigio. E chi è appena arrivato, trafelato, con la ventiquattrore. Uomini e donne di ogni età sono in coda per andare a studiare. Per tornare in aula, su banchi «pop», dell’Università Popolare.
In Italia, le istituzioni come quella sabauda sono parecchie. Sono state fondate nelle grandi città e nei borghi più piccoli. All’inizio del secolo scorso e al principio di quello che stiamo vivendo. Da Roma a Camponogara. Da Milano a Galatina. La più grande è nella capitale: 30.000 iscritti. La prima a rilasciare attestati autorizzati dal Miur – il ministero dell’Università e della Ricerca – è a Milano. L’università Popolare di Torino, invece, è la più antica. Quest’anno compie 115 anni: la fondarono Francesco Porro e Angelo Mosso, due professori dell’Ateneo di Stato nel 1900. Si dice fossero massoni. Certamente ebrei. Ma a volerla fortemente fu anche l’antropologo e criminologo, Cesare Lombroso. «Uomini che volevano diffondere il sapere. Svincolandolo da costrizioni e tabù. Da qualsiasi propaganda politica. È il gesto più generoso verso una comunità», dice il direttore, Eugenio Boccardo. All’Università Popolare, oggi, entrano l’ispettore di polizia per imparare l’arabo, il manager che segue «public speaking» per superare la paura di parlare in pubblico. Il novantenne interessato a sessuologia – già, c’è anche lui – e l’allievo che non ti aspetti. Come Pierluigi Baima Bollone, professore emerito di medicina Legale, noto nel mondo per i suoi studi sulla Sindone. È iscritto a egittologia.
I professori
A Torino si fa lezione dalle 19,30 alle 22,30. L’iscrizione costa 130 euro. S’impara a giocare a scacchi, si studia Platone, si fa pratica con la macchina fotografica, si perfeziona la lingua inglese. «Organizziamo oltre cento corsi – spiega Enrico Panattoni, coordinatore – e il numero di richieste è incredibile. Anche per insegnare. Alcuni propongono argomenti stravaganti: accetto anche quelli a patto che siano utili, funzionali ai tempi». Ciò che Panattoni cerca di spiegare, correndo da una parte all’altra del solenne Palazzo Campana per aprire le aule agli studenti, è che l’Università Popolare, ciò che lì s’insegna, ha l’ambizione di essere un fiume di sapere che assume forme diverse in base alle necessità. Ci sono anni in cui il suo carattere è scientifico, altri in cui è più umanistico, storico, letterario. Nel 2015 guarda il sociale: «Ho inserito corsi per insegnare ad assistere i malati di Alzheimer – dice Panattoni -. Le famiglie non sanno come fare. Con la crisi del welfare sono sempre più sole».
Gli studenti
Palazzo Campana è una sede austera e prestigiosa che l’Università Popolare divide con i dipartimenti di Matematica e Biologia dell’altra Università di Torino, quella di Stato. Nessuna ambizione di somigliarle. E nessun desiderio di confondersi con la terza sorella: l’Università della Terza Età. Qui gli iscritti non hanno meno di 60 anni. A Palazzo Campana, invece, si mischiano generazioni e mestieri. Pensionati ed estetiste, avvocati e precari. Poi stranieri. Tanti. «Mi chiamo Roberto Deitos Nilso, ho 56 anni e sono brasiliano – dice un uomo con il sorriso contagioso mentre sale lo scalone –. Sono arrivato in Italia vent’anni fa e questo è il primo posto che ho frequentato. Mi sono iscritto a giurisprudenza. Per vivere bene nel vostro paese dovevo conoscere le leggi».
Gli insegnanti non devono essere necessariamente laureati. Ma preparati, competenti. Specie per stare al passo con gli iscritti precisini, pragmatici.
In una parola: torinesi. Sarà pure un caso ma la maggior parte di loro, da un paio d’anni, non si fa scappare corso, seminario, visita guidata. Ogni proposta abbia a che fare con lingua, cultura, tradizioni, gastronomia, e chi più ne ha ne metta, in voga in Germania.
Perché i pronipoti di Cavour ce l’hanno nel dna: individuata la «potenza» s’impegnano a curare la diplomazia fin nei minimi dettagli.