Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  febbraio 12 Giovedì calendario

Troppi soldi e quindi troppi campioni: così per la Serie A è impossibile competere con la Premier League. La pioggia di sterline dalle tv permetterà ai club inglesi di offrire ingaggi mai visti ai giocatori migliori

Mentre Tavecchio si baloccava con l’editoria, Galliani con la geometria televisiva e mentre i cinesi mettevano le mani sul calcio italiano (e non solo) acquistando Infront Sports & Media, l’Inghilterra, o meglio, la Premier League poneva le basi per il definitivo dominio agonistico e commerciale vendendo i propri diritti televisivi – per il solo mercato inglese – alla cifra monstre di 6,9 miliardi di euro per il triennio 2016-2019. Un accordo record che ha fatto segnare un aumento del 70 per cento rispetto al precedente triennio, al quale andranno presto aggiunti i ricavi della vendita dei diritti per il mercato internazionale, attualmente stimati intorno ai 3 miliardi e mezzo di euro. Un fiume di denaro nel quale sono destinati ad affogare tutti i competitor internazionali delle squadre inglesi, con le solite eccezioni di Real Madrid e Barcellona e delle big tedesche che possono contare su una economia molto florida ma soprattutto su un sistema del tutto diverso.
Già nel 2014 nella classifica delle 30 squadre europee con le maggiori entrate, stilata da Deloitte, figuravano 13 club inglesi. Adesso, secondo le previsioni che circolano in queste ore, quella classifica è destinata a “inglesizzarsi” ulteriormente con il Manchester United che inevitabilmente finirà in testa, prima di Real e Bayern, e con Manchester City, Chelsea, Arsenal, Liverpool, Tottenham, Newcastle ed Everton tra le prime venti. Ma soprattutto, e forse questo è il dato più inquietante, con “squadrette” come lo Swansea e il Sunderland a precedere vecchie glorie europee come Inter, Ajax, Roma o Olympique Marsiglia.
A queste cifre saranno costretti a pensare i tifosi italiani, quando leggeranno le notizie degli assalti dei club britannici ai gioielli – i pochi che restano – della Serie A, da Pogba in poi. Secondo i giornali inglesi, le nuove entrate porteranno presto a contratti da mezzo milione di sterline a settimana (a settimana, non al mese) per i calciatori più forti. Il quintuplo di quanto percepisce il più pagato calciatore della serie A. Né gli italiani potranno appellarsi al fair play finanziario di Platini e della Uefa, essendo tutti soldi regolarmente iscritti a bilanci ben più solidi di quelli dei club nostrani.
Un risultato tutt’altro che casuale. Nato da una strategia avviata nel 1992, quando il calcio era una “cosa italiana”. I club inglesi capirono per tempo che gestendo in maniera più moderna la questione dei diritti tv, ma anche l’ammodernamento degli stadi e lo sfruttamento dei marchi, si sarebbero potuti ricavare molti più soldi. Si “staccarono” dalla vecchia “first division” e crearono la Premier League. Da allora l’asta dei diritti è stata perfezionata di rinnovo in rinnovo, fino a diventare, senza l’aiuto di alcun advisor, il volano dell’intero movimento. Che oggi si vanta di riempire gli stadi per il 95 per cento della disponibilità e di avere squadre che hanno investito 340 milioni di sterline nel quadriennio 2012-2016 nel calcio giovanile.
Spagna e Italia che pure partivano molto più avanti dell’Inghilterra, hanno tardato a mettersi in scia. Secondo uno studio di PricewaterhouseCoopers, nel 2014 mentre una squadra inglese guadagnava mediamente 70,4 milioni di euro dai diritti tv, una italiana ne prendeva 48,6 e una spagnola 40,1. E quando hanno cominciato a lavorare sui diritti non sono riuscite né a replicare il modello inglese dell’asta (in Italia ad esempio la legge Melandri prevede la vendita per piattaforma, mentre in Inghilterra si vende “a pacchetto”) né a reinvestire in infrastrutture e marketing.
In altri termini, mentre in Inghilterra i soldi delle tv sono stati usati dalla Premier per migliorare il prodotto, in Spagna ma soprattutto in Italia i club hanno “bruciato” quegli introiti in calciatori, spesso nemmeno tanto forti.