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 2015  febbraio 12 Giovedì calendario

«Che fai, mi cacci?». Da Fini a Fitto, il tormentone perfetto per la resa dei conti. La frase che terremotò il Pdl è straripata nella pubblicità e nello sport, diventando il passepartout delle sfide a chi sta sopra

Che fa, li caccia? Ancora? Uffa.
Quando tutto comincia a ripetersi automaticamente la degenerazione della politica pop non vira solo sul trash, che significa pur sempre spazzatura, ma si rattrappisce, si accartoccia e infine si deposita in un anfratto della psiche dove a lungo andare la noia predomina e il pathos per la sorte di Fitto e dei suoi, vabbè, rischia come minimo l’evanescenza.
Nel frattempo la formula «Che fai, mi cacci?», pronunciata da Gianfranco Fini con il rinforzo dell’indice della mano destra durante la direzione Pdl del 22 aprile 2010, fu impressa secondo i canoni di Andy Warhol su t-shirt messe in vendita (10 euri) alla prima convention di Futuro e libertà, in quel di Bastia Umbra, dove Luca Barbareschi recitò con il groppo in gola il Manifesto fondativo del nuovo partito di una destra moderna e repubblicana, e dopo qualche mese bye-bye, se l’era già squagliata, e con lui quasi tutti gli altri che orgogliosamente si erano fatti cacciare.
Tra coloro che rimasero fedeli all’idea di Fli c’era però un esponente napoletano, Enzo Rivellini, che per via di sopraggiunti impicci meta-statutari venne presto a lite con Italo Bocchino, grande stratega, e allora pure lui, il Rivellini, con l’aggravante dell’autolesionismo speculare, reagì: «Che fai, mi cacci?».
Dopo di che, a riprova della cannibalica e carnevalesca gravità con cui in modo del tutto seriale seguitano a consumarsi gli eventi politici nella Seconda o Terza Repubblica, l’immaginario tormentone si è posto magnificamente a disposizione di chiunque si trovava nello stato d’animo di sfidare un’autorità superiore. Per cui Fassina a Renzi: «Che fai, mi cacci?»; Landini alla Camusso: «Che fai, mi cacci?»; la Pascale a Silvione: «Che fai, mi cacci?». E così via, anche in altri campi nemmeno troppo lontani dalle odierne modalità espressive della politica, tipo l’ex allenatore del Milan Allegri a Barbarella Berlusconi: «Che fai, mi cacci?». O lo spot di Sky TivuSat: «Che fai, mi cacci?».
Per non dire dei tanti e tanti cinquestelle che, dal povero Favia fino agli ultimissimi fuoriusciti, hanno via via sperimentato il buon cuore, il rispetto per il dissenso e soprattutto l’attitudine al dialogo di Beppe Grillo e della Casaleggio associati.
Ha detto ieri Fini, magari con un sospiro: «La storia si ripete». Ma in realtà è molto di più, e forse di peggio, perché in quell’interrogazione così cruda ed essenziale, priva com’è di qualsiasi risonanza ideale culturale o progettuale, si rispecchia meglio che in tante altre parole lo spirito di un tempo specialmente povero, e litigiosissimo. Quasi cinque anni sono passati ormai dallo storico battibecco. I giornalisti se lo gustarono come un inaspettato fuori programma sul maxischermo dell’Auditorium di via della Conciliazione, poco prima dell’ora di pranzo. Il leader post-fascista in piedi e molleggiato, sfoggiando una delle sue incredibili cravatte rosa; il Cavaliere, nero in volto e rotondetto, sembrava non credere ai suoi occhi e alle sue orecchie.
Da allora, onestamente, poco o nulla è migliorato nella vita pubblica e nella civiltà del linguaggio. Ma siccome è questo che passa il convento, beh, senza buttarla sull’epica o sul teatro elisabettiano converrà riconoscere che in quella scenetta si rivelava o meglio cominciava a rivelarsi la fine dell’incantesimo e del sogno di un berlusconismo sempre buono. Notò giustamente Carlo Freccero che in quel preciso momento si mise in atto la nomination del Cavaliere. E se pure la storia procede un po’ lenta, da Fini a Fitto non si può nemmeno dire che s’innalzi verso orizzonti più luminosi.