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 2015  febbraio 12 Giovedì calendario

E Schettino, assente alla lettura della sentenza, scoppia a piangere: «Io nel tritacarne, ma sono stato arrogante. Mi condannano all’ora del tg»

A vederlo mentre piange e si morde le labbra viene in mente la prima volta. «Non ci doveva stare qui, lo scoglio». Quell’uomo avvolto in un plaid che la mattina del 14 gennaio 2012 scuoteva la testa davanti alla mappa nautica distesa sul banco dell’hotel Bahamas, l’unico aperto al Giglio, non era ancora diventato il colpevole perfetto, il lavacro di ogni cattiva coscienza, a cominciare dalla sua. Non era ancora Francesco Schettino, un nome diventato marchio di infamia.
L’incredulità del primo momento divenne ben presto altro. Superbia, talvolta tracotanza, tradotta in surreali foto di gruppo sul relitto della sua nave, mondanità imperdonabili che mostravano tanta arroganza quanta incapacità di comprendere anche la propria situazione personale. L’ormai ex comandante si fece personaggio, aderì a una parte che prevedeva la sfrontatezza come principale arma di una improbabile difesa. Ma ieri, quando ormai mancava solo il timbro della sentenza, almeno ci ha provato, a far emergere la modica quantità di dolore che gli avrebbe forse consentito di attraversare questi anni con maggiore dignità, senza invece toglierla alla tragedia che aveva causato, come forse è avvenuto. «Non è stato compreso che quel giorno sono morto anch’io» sono state le sue prime parole. Quel che è seguito ha se non altro rivelato, all’ultimo momento, almeno un tormento, anche se sempre condito da complottismi improbabili, desumibili più dall’espressione sofferta che dalle parole. «Ho vissuto questi anni in un tritacarne mediatico, sento che l’immagine che di me è stata offerta non corrisponde a realtà». E poi si è messo a piangere, ricordando il suo incontro con i familiari di alcune vittime. Non se l’è sentita di continuare a leggere da un foglio che ha scritto e riscritto per tre giorni, gli ultimi di questa storia.
«Patetico, una esibizione da circo, ora è troppo tardi per piangere». I commenti degli astanti, delle commesse del bar di fronte al teatro Moderno che ascoltavano in diretta quel che accadeva dall’altra parte del marciapiede, non lasciavano spazio alla pietà. Tardi, troppo tardi. Anche per dare conto del progressivo sgretolarsi di una maschera italiana, non una delle più belle, durante l’ultima settimana di processo. La spettacolare richiesta di condanna fatta dai pm, 26 anni per omicidio colposo con arresto immediato a tre anni dai fatti, è come se lo avesse richiamato alla realtà, strappandolo a gesti e atteggiamenti da perpetuo partecipante a un reality show.
Ieri, dopo la sua dichiarazione spontanea, mentre invitava con ampi gesti il suo avvocato ad aprire la Volvo nera che lo avrebbe condotto altrove, aveva per la prima volta lo sguardo di chi sa cosa lo aspetta. «Come vuole che vada? Mi condanneranno in diretta al telegiornale della sera. Quando ho sentito chiedere l’arresto immediato mi è caduto il mondo in testa. Forse ho sbagliato qualche comportamento, ma lei cosa farebbe a vivere sotto pressione come ho fatto io? Sarebbe sicuro di non sbagliare niente, sapendo di essere il lavacro di ogni male?». Quando la portiera si è finalmente aperta, aveva gli occhi nuovamente lucidi.
Alla fine, anche questa volta, l’assenza peserà più delle lacrime. In quest’ultima settimana si è lasciato andare a reazioni plateali. Ancora ieri uno dei suoi legali lo ha redarguito per un commento ad alta voce. «Per favore comandante» gli ha detto «è già abbastanza difficile così», quasi a confermare quanto detto da magistrati che molto spesso in aula hanno attraversato la soglia dell’insulto nei confronti dell’imputato. Eppure, al netto di tutto questo, anche ieri Francesco Schettino verrà ricordato come l’uomo che non c’era. Non c’era sulla Costa Concordia quella notte, e poco importa se alla fine nella suddivisione della sua pena l’abbandono della nave sia stato valutato quasi come una nota a margine, un anno sui 16 di condanna. La sua sedia era vuota al momento delle richieste dell’accusa, era vuota ieri alla lettura della sentenza, quasi a conferma di uno stereotipo che si è creato e coltivato da solo, con perseveranza.
La settantesima udienza è stata l’ultima di un processo così mediatico da essersi svolto in un teatro, con le locandine degli spettacoli alle vetrine, le poltrone e il sipario rosso. La sentenza è arrivata in una atmosfera di finta attesa e vera stanchezza, e solo gli avvisi in 5 lingue affissi ovunque che proibivano le riprese alle telecamere ricordavano come questo fosse comunque l’evento conclusivo di una tragedia enorme, di un evento che anche ieri ha aperto i tg di quasi ogni Paese. Il comandante della Costa Concordia non andrà in carcere, ma la sua difesa ha perso su tutta la linea. Aveva puntato sulla contestazione dell’abbandono della nave, cogliendone l’aspetto simbolico più pesante. Niente. «Quell’accusa proprio non riesco ad accettarla» ha detto. E comunque almeno su un punto Schettino ha avuto ragione. La sentenza è arrivata giusto in tempo per il telegiornale della sera.