Libero , 11 febbraio 2015
Giampaolo Pansa: «Quella volta che feci infuriare Almirante al suo matrimonio. È il 1973 e lo tacciai d’incoerenza e mi si scatenò contro l’inferno. Era un politico dalle molte facce»
Che ricordo ha di Giorgio Almirante, il leader del Movimento sociale italiano?» mi domandò Morsi, alla ripresa del nostro colloquio. «Il più strambo risale al 1973, quando era ridiventato da tre anni il segretario del Msi. Almirante aveva già guidato il partito tra il 1947 e il 1950, primo segretario della storia missina. Poi le lotte interne al Msi, una faccenda abituale in tutte le parrocchie politiche, lo avevano costretto a cedere il posto ad altri camerati. E a precederlo nel secondo incarico era stato Arturo Michelini, poi rimasto in sella per ben quindici anni, sino al 1969. Fu in quell’epoca, molto agitata per via del Sessantotto, che Almirante ritornò al comando del Msi.» «Se non sbaglio, Michelini era un tipo tutto diverso da Almirante» osservò Morsi. «Sembra di sì. Era del 1909, aveva combattuto da volontario nella guerra di Spagna e poi nella guerra civile di casa nostra. L’abbiamo già incontrato, ma è possibile aggiungere qualche dettaglio sul personaggio. Michelini aveva un passato di battaglie, ma con il trascorrere degli anni era diventato un signore tranquillo e amante delle comodità. La leggenda racconta che ricevesse nella sua casa romana (...) :::segue dalla prima GIAMPAOLO PANSA (...) i maggiorenti del partito. Li accoglieva avvolto da una fantastica vestaglia da camera. E mostrava il disincanto tipico dei leader. Un giorno diede udienza a un parlamentare missino che si lamentava di non essere trattato bene dal quotidiano del partito, il Secolo d’Italia. Michelini lo mise tranquillo, dicendogli: «Che ti frega del ‘Secolo’? Lo legge soltanto il mio cameriere, che è fascista». Morsi bofonchiò: «Non ci credo. È una storia inventata da voi giornalisti per dare un po’ di colore alle cronache politiche e rendere avvincenti gli articoli noiosi. Qualcuno mi ha raccontato che anche lei da giovane cronista aveva uno stile pittoresco e si divertiva a prendere per i fondelli i politici più in vista. Ma devo ammettere che, in fondo, era un atteggiamento positivo, se lo confronto con l’appiattimento di molti giornalisti di oggi, pronti a inchinarsi al primo caporale di passaggio!». «Non mi faccia parlare dell’oggi» pregai Morsi. «Piuttosto voglio raccontarle quando mi capitò di far andare Almirante fuori dai gangheri, proprio lui che veniva considerato un politico dai nervi d’acciaio. Accadde nel 1973, quando tre quarti dell’Italia si scaldava su una questione importante: il divorzio tra coniugi. È inutile ricordarle che la possibilità di divorziare era stata introdotta nell’ordinamento giuridico italiano da una legge, la Baslini-Fortuna. Gli antidivorzisti si preparavano ad annullarla attraverso un referendum che si sarebbe tenuto nel maggio dell’anno successivo. E tra i nemici della legge c’era anche il Msi.» Il vecchio sbirro m’interruppe: «Rammento bene quel che sosteneva Almirante. La sua linea era molto esplicita: riteneva che la Legge Baslini-Fortuna andasse affossata per un motivo politico. Lo strumento adatto era un referendum popolare che doveva diventare un plebiscito anticomunista. La vittoria degli antidivorzisti avrebbe impedito al Pci di andare al potere». «Certo. Fu la convinzione che il leader del Msi ribadì all’inizio del gennaio 1973, nel corso di una conferenza stampa organizzata per presentare il X Congresso del partito che si sarebbe aperto a Roma il 18 di quello stesso mese. All’inizio dell’incontro tutto andò liscio» ricordai a Morsi. «Il trambusto si scatenò quando cominciarono le domande dei giornalisti. Uno dei primi a interrogare Almirante fui io.» «Se la memoria non m’inganna» disse Morsi, «lei rivolse al segretario del Msi una domanda molto personale…» «Certo, poteva essere giudicata personale, ma io la consideravo lecita. Dal momento che Almirante era un leader politico importante, e dunque sapeva di certo che anche nel suo caso il confine tra privato e pubblico risultava pressoché inesistente. Gli chiesi perché si opponesse al divorzio, dal momento che aveva alle spalle un matrimonio fallito e stava per unirsi a un’altra signora. «Fu come gettare un fiammifero in un bidone di benzina. Esplose un casotto infernale. La sala della conferenza stampa diventò una bolgia. Tanto rovente che, lo confesso, ho dimenticato la risposta di Almirante. Avevo contro quasi tutti. Se la presero con me persino alcuni colleghi di altri giornali, accusandomi di essere un terrorista verbale, uno sfasciacarrozze, incapace di stare alle regole del bon ton tra politici e cronisti.» «Mi rammenti perché aveva fatto quella domanda ad Almirante» chiese Morsi. «Il motivo era molto semplice: conoscevo la storia coniugale del segretario missino. Non si trattava di un segreto, tanto è vero che molti ne erano al corrente. L’avevo sentita raccontare nel Transatlantico di Montecitorio, poi mi ero cautelato controllandola ed era risultata vera. Dopo la fine della guerra civile, Almirante aveva sposato una ragazza della sua città natale, Salsomaggiore Terme, in provincia di Parma. «Lei si chiamava Gabriella Magnatti e gli aveva dato una figlia. La bambina era stata chiamata Rita, il nome della madre del leader missino. In seguito il matrimonio era andato a rotoli e la coppia aveva deciso di separarsi. Nel 1973 Almirante stava per contrarre, o vave già contratto, un matrimonio religioso con una vedova più giovane di lui.» Morsi mi interruppe: «Assunta Stramandinoli, nata nel 1925 a Campobasso». «Vedo che sa molte cose, caro Morsi. E la memoria non le fa cilecca. Posso soltanto aggiungere che Assunta era una donna speciale, bella e dal forte carattere. È ancora in vita, sta per compiere novant’anni, viene spesso intervistata dai media e fa sempre un’ottima figura. Le sue risposte sulla destra che un tempo era missina sono molto pungenti e lasciano il segno. «Devo solo aggiungere» continuai, «che Almirante era un uomo intelligente. Sapeva bene che di casi come il suo ne esistevano a migliaia in Italia. Quando si trattò di decidere il referendum che abrogava il divorzio, spiegò di essere contrario all’iniziativa della Dc. Ma dentro il suo partito venne messo in minoranza. E non gli restò che schierarsi con Amintore Fanfani.» «Ha mai incontrato Almirante a tu per tu?» mi domandò Morsi. «Per un’intervista o un profilo biografico da pubblicare?» «Sì, anche se una volta sola: nel dicembre del 1970, tre anni prima dell’incidente sulla legge del divorzio. Stavo scrivendo per La Stampa una serie di articoli sulla destra. Chiesi di incontrarlo e lui accettò subito. Conosceva il sottoscritto e soprattutto il tono del giornale di Ronchey.» «Nelle stanze della Galleria San Federico a Torino, il sentimento della redazione era antifascista senza se e senza ma, come si usa dire oggi, molto intransigente. Per di più, io ero stato minacciato da un volantino del Fronte della gioventù torinese. I ragazzi missini ce l’avevano con me per le cronache della rivolta di Reggio Calabria e per altri miei peccati di cronista, che adesso ho dimenticato. Però Almirante accettò subito di parlare con me.» «Era un leader politico astuto» osservò Morsi. «Sapeva bene che eravate voi della Stampa a fargli quel regalo, non il contrario.» Il nostro incontro avvenne il 2 dicembre 1970 nella sede nazionale del Msi, a Palazzo del Drago, in via Quattro Fontane a Roma. Erano le nove di mattina, Almirante si era alzato da poco, doveva aver passato una nottata di riunioni o di dibattiti. Sembrava più anziano dei suoi cinquantasei anni. Asciutto ma livido, tutto occhiaie, la faccia un po’ disfatta. Il suo ufficio aveva un’aria neutrale. Di Mussolini non esisteva traccia, il busto del Duce l’avevano trasferito in anticamera, seminascosto in un angolo. Di nero erano rimaste soltanto due cose: un labaro delle ausiliarie repubblicane e il quadro della situazione politica e sociale italiana. Un panorama a tinte fosche che Almirante riteneva esatto al millimetro. A sentir lui, l’Italia democratica era alla vigilia del collasso. La Dc, «passeggiatrice della politica», si era arresa. Il Psi era un cavallo di Troia dei comunisti. Il Pci era diventato l’arbitro assoluto della politica nazionale. Il risultato? Le istituzioni crollavano sotto i colpi dell’opposizione comunista che insidiava la sicurezza, il lavoro, la famiglia, la scuola, la magistratura, la gioventù, la cultura e non so che altro. «Se ci ripenso a tanti anni di distanza» dissi a Morsi, «mi sembrano tutti argomenti scontati. La propaganda missina li ripeteva di continuo. Si potevano leggere ogni giorno sul quotidiano del partito. Trovai più interessanti le risposte di Almirante alle domande che gli proponevo. Riguardavano il rischio che correva da quando era diventato il bersaglio di una quantità di attivisti di sinistra. Gente che lo odiava e lo copriva d’insulti. Il più blando lo bollava come un fucilatore di partigiani. Un giorno che si era fermato a un autogrill dell’Autostrada del Sole per bere un caffè, il personale si rifiutò di servirlo.» Oggi debbo riconoscere che qualcuna delle mie domande era scioccamente provocatoria. Cominciai con il chiedergli perché non avesse mai tenuto un comizio a Cuneo. Una città dove l’antifascismo organizzato era diventato una religione politica. Lì esisteva un movimento, chiamato Cuneo brucia ancora, che teneva vivo il ricordo di una guerra civile ormai conclusa da un trentennio. Domandai: «È vero che lei ha paura di andare a Cuneo?». Lui mi fissò con i suoi occhi verdi, diventati di colpo gelide biglie di vetro. Poi rispose: «Pensi quello che vuole». «Ma ha paura o no?» La replica del leader missino mi arrivò addosso come una freccia: «Io ho sempre paura. Ma sono trent’anni che la supero con il coraggio. Lei crede che si possa stare in questo posto dove sto io essendo bloccati dalla paura?». Il coraggio gli aveva consentito di far nascere una destra molto diversa. Quella di Michelini vivacchiava nei corridoi del sottogoverno. La destra di Almirante, invece, era andata all’offensiva sulle piazze. La sua gestione aggressiva aveva consentito al Msi non soltanto di conservare i militanti più giovani, ma di tentare il recupero dei gruppetti dello spontaneismo nero. «Non era un’impresa facile» ammise lui. Con Ordine nuovo, capeggiato da Pino Rauti, il gruppo «più consistente e più nobile», era riuscita. Disse: «Gli altri sono rimasti fuori, però questi non contano». Ma gestire un partito, sia pure medio-piccolo, era una faccenda complessa. Anche un leader astuto come Almirante era costretto a tenere conto di caratteri, emozioni e speranze molto diversi tra loro. E spesso il vecchio prevaleva sul nuovo. Me ne resi conto nel gennaio 1973, quando andai a seguire il X Congresso nazionale del Msi, tenuto all’Eur di Roma.La ragazza dell’ufficio stampa era avvenente e molto sveglia. Non appena mi vide, strillò: «Caro dottor Pansa, siamo contenti che lei sia venuto ad ascoltare il nostro congresso. Così potrà rendersi conto che il fascismo non esiste più. Non siamo dei nostalgici. La nostra destra è nuova e giovane!». Per un istante pensai che fosse vero. Nella scenografia congressuale il blu aveva preso il posto del nero. Almirante ripeteva, soddisfatto: «Abbiamo saggiamenterinunciato a un rituale sorpassato». Sul palco della presidenza l’armatore Achille Lauro sonnecchiava: forse aveva trascorso una notte in bianco alle prese con qualche fanciulla disinibita. L’ammiraglio Gino Birindelli aveva l’espressione ingrugnata di chi avrebbe voluto presiedere il congresso e aprirlo con una bella lezione di geopolitica. Ma il personaggio più interessante era proprio quello che sembrava il più grigio: Pino Romualdi. Lui riassumeva la storia più recente del fascismo italiano. Indossava un ottimo doppiopetto manageriale e recitava rassegnato la parte di eterno secondo: vicesegretario di Alessandro Pavolini durante l’agonia della Repubblica sociale e vicesegretario di Almirante nell’infanzia della Destra nazionale partorita dal Msi. «Com’era la platea?» mi domandò Morsi. «A volte le platee dei congressi sono più rivelatrici delle tribune presidenziali.» «Me la ricordo come un mix tra il combattentistico e il mondano» spiegai a Morsi. «Vi tirava un’aria moscia e con parecchi posti vuoti. Le dame in visone del fascismoin grigio, di moda a Roma, sarebbero arrivate più tardi e solo per ascoltare eccitate Almirante. In compenso le ragazze missine erano tutte da ammirare. Un cronista dell’Unità borbottò: «Quelle brutte le hanno tenute nelle sezioni per respingere un attacco dei rossi…». Ma la sua era soltanto invidia. E comunque le ragazze del congresso non disdegnavano il corteggiamento dei giornalisti avversari. In seguito si venne a sapere che tra una ventenne missina e un inviato del quotidiano democristiano era nata una love story destinata a durare.» Nell’atrio il deputato Giulio Caradonna, classe 1927, invecchiato, smagrito, con la cravatta di sghimbescio, bofonchiava istruzioni ai giovani del servizio d’ordine. Erano le truppe interne con il compito di proteggere il congresso. E lo rendevano un conclave un po’ assediato e fin troppo esclusivo. «Quanto parlò Almirante?» mi chiese Morsi. «Per tre ore abbondanti. In questo era del tutto simile ai capi degli altri partiti. Pallido, elegantissimo, il baffo curato, lo sguardo gelido, andò avanti a braccio, senza avere sotto gli occhi nessun testo scritto, nemmeno un appunto. Era un oratore nato, in questo doveva aver preso dai suoi parenti, bravi attori di teatro. Offrì ai mille dell’Eur tutti i personaggi del proprio repertorio di gigione consumato. Se ha pazienza, caro Morsi, glieli elencherò.» «Sentiamo un po’. Ma sia sintetico, la prego.» «Dapprima si presentò nei panni del Democratico zuccheroso. Poi divenne l’Avversario comprensivo, il Difensore della libertà, la Vittima perseguitata, il Benemerito del Paese costretto a sentirsi straniero in patria, il Polemista arrogante e anche un tantino becero, ma non dimentico del Gentiluomo che chiede venia alle signore se dovrà arrivare al limite della scurrilità. Infine il Grande pacificatore e lo Stratega della distensione politica.» «Morale della favola?» mi domandò Morsi, che come tutti i signori anziani amava la sintesi. «Un diluvio di banalità. Del resto che ricetta poteva offrire il Msi a un’Italia che di lì a poco sarebbe stataaggredita dal terrorismo rosso e nero? L’isolamento del partito era totale. Almirante fu in grado di annunciare una sola adesione di spicco. Quella di Gianna Preda, la star del Borghese, una polemista disposta a mandare al tappeto tutti i maschi di sinistra. Dopo un annoso sodalizio con l’estrema destra, «visti i tempi difficili», Gianna si era decisa a chiedere la tessera missina. La platea si alzò in piedi e le regalò un’ovazione. La signora, in tuta nera e sigaretta con il lungo bocchino, si rivolse allo squadrone dei fotoreporter e gli regalò un po’ di boccacce».