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 2015  febbraio 11 Mercoledì calendario

La crisi è figlia della corruzione? «Un ritornello che la Corte dei Conti ripete da vent’anni e che infanga il Paese. Soprattutto quando sono le cautele anticorruzione che l’hanno favorita»

Ieri la Corte dei Conti, per la millesima volta, ha parlato del problema corruzione e l’ha messo in relazione alla crisi, perché «crisi economica e corruzione procedono di pari passo». La stessa Corte, altre volte, aveva connesso la corruzione alla crescita oppure alla stagnazione, come a dire che in Italia c’è il problema corruzione e basta: e verrebbe da rispondere che d’accordo, abbiamo capito, ma qualcuno direbbe immediatamente che sottovalutiamo il problema o che ci va bene così. Non si tratta di questo, perché l’impatto della corruzione resta devastante e azzoppa la modernizzazione del Paese: ma si tratta di capire in che misura la corruzione sia diventato e stia diventando anche un brand, visto che non c’è organo o istituto che non lo estragga come spauracchio nella certezza di fare titolo. Il che evidenzia, senz’altro, che la corruzione figura tra le urgenze assolute, ma al tempo stesso insospettisce perché da più di vent’anni la prefigurazione del Paese corrotto e mafioso è un’autentica ragione sociale. Di chi? Di movimenti politici (dalla Rete di Orlando ai Cinquestelle di Grillo) sino a quotidiani che perdono copie se non piazzano la parola corruzione in prima pagina (avete già capito) e poi ancora talkshow arruffapopolo, intere collane di case editrici, repertori comico-satirici, tutto quanto abbia da guadagnare nel continuare a dipingere il Paese nel modo più corrotto possibile. Adesso sta anche per arrivare la fiction di Sky sulla corruzione («1992»: ben fatta, oltretutto) e non stupirebbe se fosse soltanto un adeguamento dell’unico prodotto che in questo campo abbiamo venduto bene all’estero: l’Italia mafiosa, la piovra, la lupara, gli ex ladri di biciclette, il poveraccismo che sguazza nell’illegale o si mortifica nella Grande Bellezza, l’immagine che vogliono e che ci accingiamo a rimodernare. Ne consegue che il ferro è sempre caldo e viene battuto continuamente. Giornalisti anche seri, senza che gli scappi da ridere, dicono e scrivono che la corruzione non sia un problema bensì il problema del Paese: come se il declino e la crisi dipendessero principalmente da essa. Gli scandali non mancano, ma ogni volta esplodono con l’improbabile didascalia mediatica di «nuova Tangentopoli» e l’apocalisse pare imminente – sempre – anche quando si beccano quattro rubagalline di borgata. La corte dei Conti fa il suo lavoro, e lo fa, spesso, chiunque parli della corruzione: ma i censimenti e i dati sull’argomento ormai lasciano indifferenti perché paiono cifre buttate lì a caso. Molti si rifanno alle classifiche fornite annualmente da Trasparency International (soprattutto i lordatori professionali di ogni costume italico) anche se non hanno alcun valore scientifico e appaiono discretamente ridicole; sono quelle classifiche in cui l’Italia è messa in parallelo alla Macedonia e al Ghana (peggio di Cuba e della Lettonia) e che sono imperniate su un fantomatico indice di percezione della corruzione (Cpi) stabilito sulla base di interviste a «esperti del mondo degli affari e a prestigiose istituzioni»; secondo Trasparency International, per corruzione si intende genericamente anche «la negligenza nell’eseguire i propri compiti», «la partigianeria delle istituzioni», «la distorsione dell’informazione» e altre cose che con la corruzione c’entrano poco. Un’altra fonte citatissima si rifà a un documento della Commissione europea ripreso dalla Corte dei Conti italiana: la nostra corruzione sarebbe pari a 60 miliardi di euro all’anno; se fosse vero, siccome la stessa Commissione stima la corruzione europea in 120 miliardi annui, significherebbe che in Italia ci sarebbe metà della corruzione continentale mentre il resto sarebbe spalmato sugli altri 26 Paesi. Lascia perplessi: e infatti in ciascuna delle cento fonti che cercano vanamente di stimare la corruzione – il Servizio Anticorruzione e Trasparenza del Ministero della Pubblica Amministrazione, il Dipartimento Statale per la Funzione Pubblica, il recente Osservatorio anticorruzione di Raffaele Cantone – di fronte a certe cifre fanno spallucce. Anche perché il dato, in realtà, risale al 2004 e deriva da uno studio pubblicato dalla Banca Mondiale in cui si stimavano le bustarelle nel 3% del Pil mondiale; dividendo per il Pil italiano si arriva a 60 miliardi di dollari che è stato magicamente tradotto in miliardi di euro. Ridicolo. Ma declamato nei nostri talkshow tutti i giorni. Ma se la cifra non piacesse, si potrebbe sempre scegliere tra quelle di Transparency, oppure quelle dell’Alto commissariato Onu per la lotta alla corruzione, o altri studi fatti da centri di documentazione tipo l’Einaudi di Torino, o quelli di Confindustria, o l’Alto commissario anticorruzione, il Servizio Anticorruzione e Trasparenza (SAeT) eccetera. L’importante è sparare grosso, così da invocare sempre nuove leggi e leggine che irrobustiscano i margini di discrezionalità e quindi le possibilità di corruzione: perché da noi è successo proprio questo, negli ultimi vent’anni. Le cautele anticorruzione, spesso, hanno favorito la corruzione. È la verità.