La Stampa, 11 febbraio 2015
«Bocciamo il Pd con i nostri stessi emendamenti»: così i forzisti votarono se stessi. FI e il giorno delle comiche
Francesco Paolo Sisto (che è un po’ di cose tutte assieme, di Forza Italia ma fittiano ma fino a ieri relatore della riforma costituzionale, relatore di minoranza ma non molto d’opposizione) a metà mattina si è dimesso. Da relatore, si intende, un relatore che ha ritenuto le riforme «perfette» e «necessarie» e dunque «le faremo noi». Finché qualcosa non è cambiato: il presupposto della cooperazione, cioè il patto del Nazareno. E allora addio, finalmente «Forza Italia è libera di non essere scontenta», ha detto Sisto. La prevalenza della logica delle alleanze sulla sacralità della riforma della Carta ha avuto la sua cerimonia; Silvio Berlusconi è ufficialmente uscito dalla collaborazione con Matteo Renzi che avrebbe dovuto fare di lui un padre costituente, e ne è uscito al solito modo inafferrabile, come dalla Bicamerale del ’97, per cui ancora si discute se la colpa fosse del medesimo Berlusconi o di Massimo D’Alema. E il risultato è ben colto da Carlo Sibilia, dei cinque stelle: «Tutto quello che è stato fatto finora è vano».
La scena surreale si è di colpo disegnata sui tabelloni dell’aula, dove la geometria è tornata e essere euclidea, le lucine rosse tutte da una parte, quelle verdi tutte dall’altra: ci eravamo abituati al puzzle recente, di assi inediti, accordi diagonali e trasversali, berlusconiani e renziani contro grillini e vendoliani. Finito tutto. E dato il nuovo assetto, le opposizioni ricompattate hanno chiesto alla presidenza che i lavori fossero sospesi per nuove necessarie riflessioni. E poi, altrettanto compatte, hanno chiesto tempi aggiuntivi per Sel e M5S, che li avevano già esauriti: «Questa è un’assemblea costituente», ha detto Daniele Capezzone (FI), mica stiamo trattando un provvedimento laterale, non si può impedire alle opposizioni di discutere di riforma della Costituzione. Niente da fare, il presidente di turno, un Roberto Giachetti (Pd) in vena di summa ius ha respinto tutto, col brutale conforto della maggioranza dell’assemblea. Lì per lì i forzisti parevano smarriti, di colpo assoggettati al ruolo di vittime da carnefici quali erano, quando al Senato se ne stavano zitti – a proposito delle medesime norme – aspettando il momento di votare col Pd e radere al suolo gli appelli delle minoranze.
C’era aria di trionfo per il capogruppo Renato Brunetta, finalmente a capo di un drappello coerente con lui, che da sempre sul suo Mattinale parla del patto del Nazareno come di un patto leonino. Ma alla quarta o quinta votazione è apparsa nella sua spettacolare evidenza la vanità del passaggio di Forza Italia da riforme-sì a riforme-no: alla Camera il Pd ha i numeri per far passare tutto ciò che gli garba; è al Senato che l’opposizione berlusconiana avrebbe avuto un senso, ci fosse stata. «È il giorno delle comiche», ha commentato Raffaele Fitto – la coscienza cattiva del Cav – supponendo il solito teatrino. Un idea rilanciata da un altro dissidente, Giovanni Bianconi: «FI vota col Pd contro gli emendamenti di centrodestra. Siamo su scherzi a parte». E dura già da un po’.