la Repubblica, 11 febbraio 2015
Giallo sull’Isabella d’Este di Leonardo, il quadro sequestrato in un caveau a Lugano. Esportato clandestinamente, potrebbe essere finito in un giro di vendite ai privati: «Sul mercato nero vale 120 milioni di euro»
Il ritratto di Isabella d’Este, spuntato dal nulla poco più di un anno fa e attribuito a Leonardo Da Vinci (seppure tra polemiche e stroncature), era finito nelle mani di un ex camorrista e in quelle di un’organizzazione criminale di opere d’arte vere o presunte.
I carabinieri del nucleo patrimonio culturale l’hanno trovato e sequestrato, pochi giorni fa, all’interno di un caveau di una banca svizzera, pronto per essere venduto a un fondo fiduciario inglese al prezzo di 120 milioni di euro.
Pare che gli acquirenti stranieri fossero ignari di tutto: sia del casellario giudiziario del venditore (con un passato nel clan di Raffaele Cutolo) sia delle perplessità di alcuni esperti che ritengono quel dipinto un falso, una crosta.
È stata la procura di Pesaro a bloccare la vendita e a sequestrare l’opera, attraverso una rogatoria internazionale.
Ora, i magistrati marchigiani chiederanno la collaborazione del ministero dei Beni culturali per valutare e analizzare il dipinto. E risolvere finalmente il mistero.
Un mistero che dura da oltre 500 anni, da quando nel 1499 Leonardo in fuga dalla Milano occupata dai francesi e ospite della Signora di Mantova, Isabella d’Este, dopo averle regalato un ritratto a carboncino (che ora è esposto al Louvre), la lascia con la promessa un giorno «di farla di colore». Si tratterebbe di un’opera dunque dal valore inestimabile: l’unico dipinto di Leonardo eseguito su tela. Ma dell’esistenza di questo ritratto, tanto desiderato e tanto ostinatamente richiesto dalla moglie di Francesco II Gonzaga, non c’è mai stata certezza.
Trascorreranno cinque secoli di avvistamenti veri o presunti fino a prefigurare che sia andato perduto per sempre.
Nel 2013 però una coppia (lei nobile decaduta marchigiana e lui ex camorrista) asserisce di esserne in possesso.
Da lì le prime perizie, articoli sulla stampa, polemiche e acquirenti pronti a pagare più di cento milioni di euro.
Pochi mesi dopo, il nucleo tributario della Guardia di Finanza e i carabinieri del reparto Patrimonio culturale si ritrovano a indagare su un avvocato pesarese, ideatore sia di alcune truffe assicurative – sostengono gli inquirenti – che di traffico di opere d’arte. È lui che attraverso le intercettazioni, inconsapevolmente, guida le forze dell’ordine fino al caveau.
L’ipotesi di reato è “associazione a delinquere per esportazione illecita di opera d’arte di rilevanza nazionale”.
E ieri, mentre il procuratore Manfredi Palumbo in un’affollata conferenza stampa spiegava ai giornalisti le ragioni del sequestro del dipinto, finanzieri e uomini dell’Arma eseguivano una raffica di perquisizioni, sequestri e interrogatori.
Ed è così che sono saltati fuori altri quadri, indizi e documenti che i magistrati valutano «molto rilevanti». Plaude all’intervento della magistratura il ministro ai Beni culturali Dario Franceschini: «È stata dimostrata l’efficienza delle forze dell’ordine anche in questo delicato settore».
Resta ancora da chiarire, però, se il gruppo criminale avesse tra le mani un’opera di Leonardo o una crosta.
Secondo Carlo Pedretti, da molti ritenuto il più grande esperto vivente dell’artista toscano, il dipinto sarebbe stato realizzato a Roma, nell’ultimo periodo di attività del maestro.
«Nell’ottobre del 1514 – scrive l’esperto nella relazione ora sotto sequestro – Isabella D’Este veniva alloggiata in Vaticano, ospite dello stesso papa e di Giuliano de’ Medici, per cui è impensabile che non abbia voluto rivedere Leonardo. Di qui l’origine di questo eccezionale dipinto nel quale non esito a riconoscere l’intervento di Leonardo particolarmente nella parte del volto».
Altri esperti invece si sono dichiarati scettici. Come Martin Kemp, anche lui studioso di fama mondiale, secondo cui a sconfessare la scoperta bastano la documentazione e i disegni sopravvissuti di Leonardo a Isabella. Vittorio Sgarbi invece l’ha definita «una crosta di nessun valore, senza volume né chiaroscuro».