la Repubblica, 11 febbraio 2015
Una notte tra i barboni di New York. Nelle Grande Mela se ne contano poco meno di sessantamila e molte sono famiglie con figli piccoli e solo tremila dormono nei rifugi: «Non ci fanno portare le nostre cose»
Da lontano sembra un mucchio di stracci gettati alla rinfusa in un angolo buio tra due case, dove la 109esima strada incrocia Columbus Avenue. Ci avviciniamo con prudenza, rispettando le istruzioni ricevute, manteniamo una distanza di sicurezza. Alle nostre prime domande in inglese, da quegli strati di coperte e vestiti laceri spunta un filo di voce: «No entiendo». Tocca a me continuare la conversazione, l’unico della squadra che azzarda un rudimentale spagnolo. Sono le tre di notte, a New York la temperatura è 10 sotto zero, il vento gelido frusta la faccia, cumuli di neve ai bordi dei marciapiedi. Da un lacero passamontagna, l’uomo scopre un angolo del viso, quanto basta per vedere e rispondermi. Ha un occhio che non si apre, gonfio per il gelo o forse un’infezione, dal suo giaciglio emana un fetore di urina. È mite, docile, nonostante lo abbiamo svegliato. Siamo in giro già da tre ore, a perlustrare il quadrilatero che ci è stato assegnato. Squadra 17 dell’Upper West Manhattan, destinata a un angolo nord-ovest che confina con Central Park e Harlem: questi siamo noi cinque. Uno dei tanti manipoli di volontari dell’operazione Hope, che vuol dire speranza, ma in questo caso è l’acronimo di Homeless Outreach Population Estimate. È il censimento annuo dei senzatetto di New York. L’operazione si ripete ogni anno dal 2003, con una mobilitazione di volontari, l’appoggio del municipio, in coordinamento con servizi pubblici e privati di assistenza. Viene fatto d’inverno e di notte, quando per le strade rimangono i casi più disperati: su 58.500 senzatetto newyorchesi (tra cui molte famiglie con figli), sono “solo” tremila circa quelli che non passano la notte in un centro di accoglienza. È importante sapere esattamente quanti, chi sono, e dove, se si vuole migliorare la capacità di aiutarli. Il censimento è anche un’operazione di soccorso: se il senzatetto è d’accordo, i volontari allertano i minibus in circolazione tutta la notte, per portarli nei rifugi; o le ambulanze se c’è bisogno di ricovero in ospedale. Con mesi di anticipo abbiamo ricevuto un addestramento alle “regole d’ingaggio”: come si fa ad avvicinare gli homeless senza che si sentano minacciati, e salvaguardando la propria sicurezza. Cosa chiedergli sulla loro vita; come spiegargli in modo semplice i loro diritti. Siamo squadre di cinque ma uno solo deve spingersi avanti, guai ad “accerchiare” l’intervistato. Nessuna insistenza, rispetto della privacy, vietate le pressioni psicologiche. Ci sono in giro per la città durante questa notte perfino dei “decoy”, finti senzatetto che verificano la qualità del nostro lavoro, segnalano se qualche volontario non rispetta le regole. La mia squadra include tre studentesse universitarie di origine asiatica e Ted, il capogruppo, giovane analista finanziario a Wall Street, iscritto a un corso serale alla Fordham University per diventare piscoterapeuta. Ci hanno ispezionato alla partenza, dal “campo base” (una scuola pubblica) al 210 West, 61esima strada, per verificare se abbiamo vestiti adeguati, guanti e scarponi, torce elettriche, cellulari carichi, numeri di emergenza da chiamare. L’orario è cronometrato, bisogna tornare entro le quattro di mattina con i questionari riempiti.Il senzatetto ispanico che ho svegliato rimane sdraiato a terra ma risponde una per una a tutte le mie domande. Siamo coetanei, ha 58 anni. No, non è un reduce dell’esercito (significativo, questa è una delle prime domande nel questionario standard). No, non ha dimora né parenti o conoscenti a cui chiedere ospitalità stanotte (bisogna chiederlo, sempre e comunque, anche di fronte all’evidenza). Accetterebbe di essere trasportato, subito, in un centro di accoglienza? Lungo silenzio. Poi è lui che comincia a fare domande. So dirgli l’indirizzo del centro di accoglienza? È per caso quello sulla 30esima strada «che sembra un ospedale?». Sono disposto ad accompagnarlo fin là, qualora ci siano brutte sorprese? Cerca di raccontarmi frammenti di ricordi, esperienze passate con gli “shelter” (rifugi) comunali. Arriva la domanda decisiva: «Le mie cose, mi lasciano portare le mie cose?». Fa un cenno verso il marciapiede, alle mie spalle. Legato a un lampione c’è un carrello di supermercato, carico all’inverosimile: una pila di sacchi di plastica gonfi di lattine vuote. Dunque è uno di quelli che vanno a frugare nell’immondizia dove noi buttiamo le lattine di Coca e birra, ne raccoglie a centinaia, per incassare i pochi centesimi del vuoto a rendere. Chiamo il centro di accoglienza, arriva il mini-bus delle ronde di soccorso. Lungo conciliabolo con il guidatore, un ex senzatetto pure lui, uno di quelli che sono stati salvati e messi al lavoro dall’ong non-profit Doe (che sta per “anonimo”). Verdetto negativo: la montagna di lattine non ci sta sul minibus e comunque verrebbe respinta all’ingresso del ricovero. L’ispanico sotto quel mucchio di stracci ascolta la mia risposta, abbozza un sorriso mesto, sembra dire: lo sapevo. No, non accetta di andarsene lasciando lì tutto quello che possiede, il suo mestiere, la sua piccola azienda. L’autista capisce: «Finché non ti metti nei guai, la vita in strada è più libera che nei nostri centri». Il minibus se ne va, vuoto. L’unico aiuto che possiamo dare (è vietato offrire soldi): un tè bollente, comprato in una bettola pachistana aperta tutta notte, lì vicino.Di lì a poco incontriamo un giovane afroamericano, saluta con un largo sorriso che esibisce due incisivi spezzati. «Ah vi manda il comune? È gentile tenerci compagnia. Certo mi piacerebbe avere un alloggio per stanotte. Potete aiutarmi a entrare nelle graduatorie delle case popolari? Quelle che promette de Blasio. È tutta questione di appoggi. A me non mi appoggia Obama!». E giù a ridere. Il sindaco Bill de Blasio ha appena aumentato da 35 a 45 milioni gli stanziamenti per i centri d’accoglienza, per applicare la legge che obbliga la città a offrire un posto letto a chiunque ne faccia richiesta. La popolazione degli homeless cresce di seimila persone all’anno. Molti sono espulsi da quartieri ex popolari che diventano sempre più cari, nella metropoli più ricca del pianeta, dove abitano 400.000 milionari. Una particolarità del censimento: così come gli homeless non si sentono minacciati, a loro volta raramente reagiscono con ostilità. In 12 anni non si segnala una sola aggressione nella Notte della Speranza.