la Repubblica, 10 febbraio 2015
Nadya, la top gun simbolo di Kiev. È stata arrestata a giugno con l’accusa di aver fatto uccidere due giornalisti russi. Da quel giorno è diventata l’eroina dell’esercito ucraino che combatte contro i separatisti. Ora la pilota fa lo sciopero della fame: «Non sono colpevole»
Il viso asciutto, da “dura”, di Nadya Savchenko ti sorride ovunque, in tv, sui Social network, dalle copertine delle riviste o dai suoi poster sistemati a Majdan e un po’ dappertutto in città. Rapita dagli indipendentisti del Donbass nel giugno scorso e subito consegnata alle autorità di Mosca, questa top gun è diventata per gli ucraini il simbolo della guerra contro le milizie filorusse nell’Est del Paese e, soprattutto, contro chi, dicono a Kiev, le foraggia: il presidente Vladimir Putin. Ma da eroina di un conflitto che solo nelle ultime ore ha fatto altri 16 morti, “Nadezhda” rischia adesso di diventarne anche una martire. La pilota è all’ottava settimana di sciopero della fame in una cella d’isolamento della prigione Matrosskaya Tishina, la stessa dove nel 2009 dove fu ucciso a calci dai suoi carcerieri l’attivista e avvocato anticorruzione Sergei Magnitsky. Fatta eccezione per il Natale ortodosso, che la Savchenko ha celebrato con un sorso di tè caldo, dal 13 dicembre scorso l’unica cosa che ingerisce è un po’ d’acqua e zucchero. «Fino al giorno in cui non tornerò in Ucraina o fino all’ultimo istante che vivrò in Russia, non mollerò. Una persona libera come lo sono io, in prigione non può resistere, soprattutto quando è innocente», ha scritto alla sorella l’11 gennaio. Trentatré anni, prima ucraina pilota di elicotteri da combattimento e di caccia-bombardieri Sukhoi, e unico militare donna nella missione di Kiev come peacekeeping in Iraq, “Nadezhda”, dicono i suoi commilitoni, è persona dolce e insieme coraggiosa. Nel filmato girato dai miliziani indipendentisti dopo la sua cattura, in cui la si vede incatenata a dei tubi dell’acqua, è soprattutto la seconda qualità che traspare. Nadya sa essere dura in un mondo di duri. Lo è quando, torchiata da tre o quattro sgherri in divisa, rifiuta di svelare informazioni che potrebbero mettere a rischio le sue truppe. Lo è anche a novembre, quando davanti alla Corte russa che le ha appena elencato le accuse che gravano contro di lei, con il sorriso sulle labbra e guardando negli occhi il suo giudice, dichiara: «Voi dite che mi lascerete andare, ma io so bene che mi ucciderete, viste le colpe che m’imputate».
Tra le accuse contro la Savchenko, la più kafkiana è quella secondo cui la top gun sarebbe stata catturata dopo aver attraversato clandestinamente la frontiera con la Russia facendosi passare per profuga. Versione molto contrastata, poiché i miliziani s’erano già vantati della sua cattura, e avevano diffuso in rete il filmato del suo interrogatorio. L’altra accusa della Corte russa di Voronezh è di aver permesso l’assassinio di due giornalisti russi della televisione di Stato russa e della Radio Broadcasting Company, Igor Kornelyuk e Anton Voloshin, fornendo dall’elicottero sul quale pattugliava l’est del Paese le coordinate per individuarli. Ecco che cosa ha risposto l’imputata a fine agosto: «Quello che accade in Ucraina è un affare interno su cui un altro Paese non può giudicare, io faccio parte delle forze armate, ho fatto solo il mio lavoro. Quanto alla morte dei due giornalisti russi, io non sono colpevole». In Ucraina sono convinti che queste accuse verranno smontate, perché visibilmente troppo stravaganti: «Ma vedrete, la accuseranno di altro», dicono a Majdan. Intanto, ac- cusano i suoi superiori, la detenuta Savchenko viene di continuo sottoposta a test psichiatrici, gli stessi con cui venivano tormentati gli oppositori del regime sovietico.
Di fronte a tanto accanimento giuridico sono insorte perfino alcune personalità russe, da Mark Feigin, l’avvocato che difese le tre Pussy Riot incarcerate per aver ballato in una cattedrale di Mosca, alla paladina dei diritti umani Ella Pamfilova. Ma dal giorno della sua cattura, la stampa popolare russa s’è tutta schierata contro la top gun ucraina, demonizzandola ad arte e chiamandola appunto «Figlia di Satana» (il tabloid Tvoi Dyen ) o «Macchina di morte in gonnella» (il quotidiano Komsomolskaya Pravda ).
Ovviamente è stato di tutt’altra natura l’atteggiamento in patria. Da quando le televisioni ucraine l’hanno mostrata nelle mani dei miliziani filorussi, ammanettata e con la testa dentro un sacco, il Paese s’è stretto attorno alla sua sorte. L’estate scorsa, il presidente ucraino Petro Poroshenko le ha conferito la Medaglia al Coraggio, twittando subito: «Nadya, noi non ci arrendiamo fino a quando non sarai libera». Il 26 ottobre la Savchenko è stata eletta, sia pure in absentia, membro del parlamento ucraino, che ha immediatamente diramato il testo seguente: «Per la prima volta nella storia dell’Ucraina indipendente, un deputato non può rappresentare il popolo ucraino in parlamento perché è illegalmente detenuto nel territorio di un altro Paese». Già, perché grazie al suo avvocato, la top gun è riuscita a prestare giuramento al parlamento di Kiev tra le mura della sua cella.