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 2015  febbraio 09 Lunedì calendario

Il nuovo film di Terrence Malick, il regista invisibile, divide la critica al Festival di Berlino. “Knight of Cups” è un’indagine sul senso della vita nei tormenti di un divo seduttore, interpretato da Christian Bale

Tenendo fede alla sua fama di «invisibile» (è a Berlino? non è arrivato? ah saperlo…), Terrence Malick ha disertato la conferenza stampa di presentazione del suo ultimo film, Knight of Cups (Cavaliere di coppe, una delle carte dei tarocchi della fertilità) mandando avanti Christian Bale e Natalie Portman a «difendere» il titolo più atteso di questa 65esima Berlinale. E quello, per la cronaca, che ha fatto registrare le code più lunghe e più affollate.
Un film praticamente impossibile da riassumere e che Bale, protagonista assoluto nei panni dello scontento Rick, ha raccontato con parole laconiche: «È la storia di qualcuno che è arrivato sulla cima ma si sente completamente vuoto. E inizia un viaggio che non sa dove lo porterà». Difficile in effetti dire qualcosa di più, anche dopo le due ore di proiezione: si fa fatica a capire i riferimenti ai tarocchi – oltre al titolo, il film li usa per scandire gli otto capitoli: La luna, L’appeso, L’eremita, Il giudice, La torre, La papessa, La morte e Libertà (ma l’ultimo non ha riferimento diretto con le carte della tradizione) – se non con una piccolissima scena dove Rick se li fa leggere, più per curiosità che per convinzione. Ma soprattutto si fa fatica a dare un senso al flusso di ricordi e di visioni dentro cui Rick si trova sbalzato, non si capisce se per solo effetto di immaginazione o per reale partecipazione.
Ci sono naturalmente i ricordi dell’infanzia, con l’immancabile giardino e il gioco dell’altalena (presente anche nei precedenti The Tree of Life e To the Wonder); c’è la figura del padre, all’inizio caratterizzato da vaghe metafore bergmaniane, poi messo di fronte alle recriminazioni dei due figli e infine scoperto in atteggiamenti religiosi; c’è l’invasione di donne e donnine che Rick attira come api il miele, pronte a mettere in bella evidenza le più appariscenti qualità; ci sono le feste e i party hollywoodiani dove ognuno sembra sforzarsi di dare il peggio di sé (con Antonio Banderas che non evita né ridicolaggini né scempiaggini); c’è l’inevitabile discesa nella solitudine dei peep show e la gita, altrettanto inevitabile, tra i neon e le pacchianerie di Las Vegas; ci sono le inspiegate e vuote camminate tra i set deserti di Hollywood e quelle nei quartieri poveri di Los Angeles, tra hobo e mendicanti; ci sono lunghe ed estenuanti rincorse sul bagnasciuga e peregrinazioni solitarie tra montagne, canyon e deserti.
E ci sono, ma per non più di dieci minuti ciascuna, le due donne che hanno contato qualcosa nella vita di Rick: l’ex moglie Nancy (Cate Blanchett), che esercita la medicina in un ambulatorio per poveri (segno di un impegno concreto e quotidiano) e l’ex amante Elizabeth (Natalie Portman), entrata in crisi quando si è scoperta incinta ma incapace di lasciare il marito (simbolo dell’amore assoluto). Tra tutte queste persone e situazioni, Rick si muove catatonico e stranito, come sospeso tra il rifiuto e la fascinazione, uguale a se stesso sia che si tratti di ricordi in prima persona o di fantasie inventate.
Ad aumentare la comprensione dovrebbero aiutare lunghi dialoghi fuori campo, meditativi e assiomatici, che giocano per antifrasi rispetto alle scene che scorrono sullo schermo e vorrebbero avere la funzione di dialettiche «voci della coscienza» rispetto ai personaggi in scena, ma il rischio è che finiscano solo per funzionare da «effetto eco», confondendo più che davvero interrogando.
Certo, per chi ha presente gli ultimi film di Malick, sarà abbastanza facile ritrovare il percorso di scavo e di scandaglio dentro l’animo umano, lungo una linea che insegue l’astrazione e cerca la spoliazione da qualsiasi accidente narrativo. Già evidente in To the Wonder, dove comunque si parlava ancora chiaramente di coppia e della sua crisi, questa voglia di assolutezza metafisica evita qualsiasi concessione alla psicologia (ha spiegato Bale: «Rick è qualcuno che non ha capito di aver bisogno d’aiuto») o progressione narrativa (ancora Bale: «Il film è una specie di eterno ritorno che non viene mai soddisfatto: Rick cerca di trovare qualcosa che non sa bene cosa sia»).
Con un rischio evidente però: che lo spettatore resti sconcertato e rifiuti in blocco questo cinema senza regole. E finisca per vedere nel film solo una «giustificazione privata» delle fobie e degli odi di Malick (che evita mondanità e flash), senza sentirsi in qualche modo coinvolto e interrogato lui pure.