Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2015
Ora gli evasori vanno alla ricerca di altre Svizzere. Ecco tutti i rischi di piazze finanziarie poco trasparenti
Tempi duri per i renitenti al fisco. San Marino è oramai nella White list, la Svizzera entro il 2017 ratificherà gli accordi per lo scambio di informazioni in automatico con l’Italia, anche l’Austria rinuncerà a un segreto bancario non più al riparo della Costituzione. E poi ci sono Ocse, Gafi e Moneyval e le altre organizzazioni sovranazionali di sorveglianza antiterrorismo e antiriciclaggio.
Tutti organismi che puntano i loro binocoli sugli altri avamposti della segretezza bancaria, Vaticano incluso. Il «grande fratello» antievasione, insomma, lavora a cottimo e su scala internazionale.
Dalla Svizzera, dove si susseguono i convegni sul tema (sensibilissimo anche per ragioni occupazionali) si lanciano moniti contro i tentativi di adozione di tattiche diversive. Così Paolo Bernasconi, avvocato ed ex procuratore pubblico della procura ticinese, di recente ha tenuto a suggerire la massima cautela a quei banchieri elvetici che già hanno pensato ad aprire succursali, consociate, filiali in Paesi tradizionalmente affini (come Singapore, paese in cui sono state aperte molte branch di banche elvetiche), tradizionali mete alternative alla Confederazione dei capitali in fuga. In primo luogo perché l’autorità bancaria di Berna, la Finma (Financial market supervisory authority), riterrà le case madri direttamente responsabili di ogni «nefandezza» eventualmente commessa dalle proprie «subsidiaries» ovunque si trovino.
Oltretutto pure Singapore, per effetto del recepimento di alcuni «suggerimenti» del Gafi ha, da almeno un triennio, adottato una legislazione più restrittiva sul tema: con l’entrata in vigore del Cdsa (Corruption drug trafficking and other serious crime act). Legge recepita e trasformata dalla locale authority monetaria (la Mas) in una circolare che ha imposto alle banche residenti un censimento degli asset in giacenza e dei loro beneficiari effettivi. Si fa dunque ardua la ricerca di un approdo invisibile agli occhiuti scanner della vigilanza finanziaria planetaria. Ultimamente sono in molti ad avere puntato lo sguardo lontano. Anzi lontanissimo. Agli Emirati Arabi Uniti e, in particolare a Dubai. Paesi accoglienti per molte ragioni, oltre a quelle climatiche: un sistema bancario efficiente (i dati del Gafi elencano 46 insegne bancarie di cui 21 locali e 25 internazionali, una trentina di intermediari finanziari, cento broker di borsa) il tutto unito a una tassazione a zero per le persone giuridiche. Ma anche qui creare una holding di diritto locale non è né costoso, né complicato.
Meglio ancora, come suggeriscono molte brochure facilmente reperibili sul web, se si agisce in tandem con consociate basate a Cipro o a Malta. L’operatività, poi, può essere gestita agevolmente su internet, e non vi sono fastidiose limitazioni al prelievo di contanti. Certo potrebbe essere imbarazzante trovarsi in coda allo sportello con taluni latitanti italiani (noti o meno) che hanno scelto proprio Dubai come meta del proprio espatrio forzoso, oppure con qualche finanziatore di cause e combattenti del terrorismo islamico. Ma ove si concordi con il principio che «pecunia non olet» ciò potrebbe diventare problema secondario.
Analogo il caso di Cipro: Paese, specie nella zona di influenza turca, piuttosto impermeabile a moniti, moral suasion, pressioni internazionali. Qui però va fatta attenzione: siamo in piena zona di confine. Un crocevia tra legale, paralegale, illegale e criminale. Mafie russe si intersecano con quelle cecene, traffici d’armi e servizi segreti di ogni paese. Occorre essere estremamente risoluti per scegliere una tale piazza e deporvi il proprio risparmio. Un poco come coloro che a metà degli anni 90 scelsero di investire in azioni di un’emittente che cavava pregiato marmo nero in Perù. Il denaro da San Marino proseguiva verso i Caraibi. A Saint Vincent alle isole Grenadines, dove veniva custodito in una banca locale denominata dapprima Owens bank e poi The New Bank limited. Banca fondata da alcuni membri della famiglia Nano. La banca alla fine degli anni ’90 assunse un nuovo dipendente, un signore di etnia giapponese esperto in contabilità che però anziché ad Harvard, si era laureato a Quantico. Era un agente infiltrato dell’Fbi che, in seguito intervenne con un spettacolare blitz e fece chiudere d’autorità la banca e i suoi conti.