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 2015  febbraio 09 Lunedì calendario

I costumi in musica di Emanuele Ungaro. Parla il grande stilista, in questi giorni a Roma per vestire i Carmina Burana, in scena da sabato al teatro dell’Opera. Lui che ha creato gli abiti per Anouk Aimée e Jackie Kennedy ancora oggi dice: «La moda è sogno e seduzione». Poi racconta: «All’inizio non avevo soldi per pagare le modelle di Parigi, ma regalavo loro i capi che indossavano»

«La moda è sogno». «Disegnare un abito è dare forma a un desiderio. Che deve rimanere desiderio». «Vestire è sedurre. Quando ho cominciato volevo sedurre anche le sedie». «All’inizio non avevo soldi per pagare le modelle. Regalavo loro i capi che indossavano. Ed erano le ragazze più belle di Parigi». Non c’è una frase, una storia, una riflessione, che meriti più delle altre di aprire il racconto della vita di Emanuel Ungaro, il grande stilista, «artigiano, non artista», in questi giorni a Roma per realizzare i costumi dei Carmina Burana, in scena al teatro dell’Opera da sabato prossimo.
Quando parla il couturier, che ha stampato sui tessuti i profumi della Provenza, che ha poggiato sui fianchi delle dive i drappeggi della storia, che ha racchiuso nelle ruches la sensualità parigina, la Ville Lumière si materializza con Anouk Aimée e Jackie Kennedy, si rianimano le passerelle, melange di floreale e geometrico, rivivono le sinfonie di tinte e stoffe quasi fosse musica. E l’intera sartoria del Costanzi s’incanta: lo segue passo passo, mentre appunta sui manichini gli spilli conservati nella mitica pochette, quando disegna i bozzetti per gli ottanta cantanti, quaranta ballerini, tre protagonisti, insieme con Micha van Hoecke, coreografo dello spettacolo.
Come saranno i suoi Carmina Burana?
«Ho cercato di tradurre con i costumi i contrasti della musica. La poesia e la violenza. Nel coro sono tutti uguali. Tessuto povero per sottolineare l’essenzialità. Nei ballerini viene fuori il mio segno, il drappeggio, le ruches adattate al movimento. La soprano sarà rosso fuoco. Non ho inseguito la storia, ma ho sottolineato le caratteristiche dei personaggi, abiti liquidi».
La sua esperienza in un laboratorio teatrale?
«Vorrei lasciare una traccia del mio passaggio in questo posto raro, così come loro, queste artigiane preziosissime, l’hanno lasciata in me. Non avevo mai vestito dei danzatori. Mi hanno insegnato molto. Loro forse hanno imparato a montare meglio una spalla. Incontrandoci si è aperto un mondo».
Papà pugliese, formazione a Aix-en-Provence, gli inizi a Parigi con Balenciaga, l’incontro con Courreges. E poi le dive. La cessione della griffe. C’è qualche altro momento della sua carriera che le piace ricordare?
«Il mio primo atelier in Avenue Mac Mahon. Erano gli anni Sessanta. Lo tirai su con Sonja Knapp, compagna di allora. Per aumentare il capitale mettemmo dentro anche una Porsche. In ottanta metri quadrati ci facevano tutto, disegnavamo, cucivamo e presentavamo le collezioni. Ma ci obbligarono ad andar via. Era un palazzo di piccoli borghesi, detestavano il via vai, il frastuono. Bloccavano l’ascensore, tolsero il mio nome dal citofono. Un inferno. Fino a che un giorno attraversai Boulevard de l’Armée. E la mia vita cambiò».
E poi?
«Uno studio di 300 metri quadri, in Avenue Montaigne. Mi dissi: se sbaglio, mi sparo. Mi ricordo che montammo la moquette poche ore prima della sfilata. Fretta, concitazione, urla: gli operai ci scaricarono tutta le terra per il pavimento in strada e se ne andarono. Ci ritrovammo con le pale in mano, l’architetto e io».
La collezione però fu un successo?
«Una scelta forte. Abbinamenti inediti di tessuti e colori, blu e verde, fucsia e rosso. La mia identità era venuta fuori. Volevo trasmettere seduzione. Immaginavo una donna con tanti figli, al mattino con una lunga lista di cose da fare, un marito noioso, un amante così così. Quella donna doveva e deve poter aprire l’armadio e vestirsi a occhi chiusi».
Le donne di oggi le vestirebbe come allora?
«Una collezione nasce dalle ceneri di quella precedente. Oggi, non saprei più. Gli abiti sono un’evoluzione, lenta, del gusto e della creatività. E non faccio più collezioni. Ma mi ricordo che la robe-sac di Balenciaga venne rifiutata. I miei stampati vennero fucilati dalla stampa. E poi... Ci vuole coraggio. Un po’ di eroismo. Bisogna fare ciò che si reputa giusto, bello, con entusiasmo, ma anche disperazione».
Nel suo studio, la musica a tutto volume fa parte della leggenda...
«Per la gioia dei miei collaboratori. Musica da camera, quartetti, Beethoven, la mattina. Dal pomeriggio in poi l’opera. Rossini, molto. Ma anche Wagner. La musica crea un mondo e impone il silenzio. Invita alla concentrazione».
Lei una volta ha detto che i suoi abiti cantano.
«I miei abiti nascono da un intuito. Balenciaga si buttava sulle tele, non disegnava quasi mai. La creazione deve arrivare dalle mani e dallo spirito. E come nella musica tutto alla fine deve avere un senso».
E quand’è che stonano?
«Stona la volgarità. Il lusso non è una questione di ricchezza ma di educazione. Questa frase andrebbe appesa su tutti i muri delle case di moda».