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 2015  febbraio 09 Lunedì calendario

La prima linea contro Boko Haram. I vigilantes nigeriani, un esercito di circa 200 disperati, malvestiti, malarmati, senza soldi e cibo che combatto senza tregua e fino allo sfinimento i ben più equipaggiati miliziani islamici

Per le strade di Adamawa, uno dei tre Stati della Nigeria settentrionale insieme a Yobe e Borno, dove è stato dichiarato lo stato d’emergenza per gli attacchi del gruppo terrorista Boko Haram, l’aria che si respira è pesante. I servizi di intelligence, grazie ad una soffiata, hanno appena scoperto che la sette islamica guidata dal leader Abubakar Shekau, stava pianificando un attentato nella città di Yola, in grado di distruggere un edificio di dieci piani. Andando verso nord, avvicinandosi alle roccaforti dei guerriglieri che aspirano a istituire uno Stato islamico, in mezzo alle strade terrose si intravedono solo marwa (moto-taxi locali) gialli e bambine velate, usate in varie occasioni da Boko Haram come bombe umane per seminare morte e panico nella regione. Dopo chilometri di nulla, dove l’unico segnale di vita è rappresentato da alberi secchi che stentano a sopravvivere nella calura della savana, iniziano i primi posti di blocco dell’esercito nigeriano, accusato da più parti di essere colluso con il gruppo terrorista, soprattutto dopo l’informativa di Amnesty International, secondo cui sarebbe stato a conoscenza dell’attacco sferrato da Boko Haram, i primi di gennaio, nella cittadina di Baga, che ha lasciato sul campo almeno duemila vittime civili.

I checkpoint dell’esercito
Pochi indossano giubbotti anti-proiettili e la maggior parte è armata con Ak 47 ormai logorati dal tempo. Superati, non senza difficoltà, i checkpoint, avvicinandosi al villaggio di Mumbi, raso al suolo da Shekau e compagni alcuni mesi fa, si iniziano ad intravedere i primi segnali tangibili dell’offensiva. Macchine incendiate, case abbandonate con le pareti affumicate, fili elettrici tagliati. Su alcune pareti delle case abbandonate, scritte nere in arabo recitano «combattiamo per l”Islam». Un segno indelebile del passaggio di Boko Haram. Poche anime camminano lentamente per le stradine deserte. «Siamo tornati per prendere qualche vestito e vedere se alcuni dei nostri parenti sono ancora vivi prima di tornare a nasconderci sulle montagne perché lì Boko Haram non arriva» – raccontano.
La grande fuga
La maggior parte delle persone sono scappate, attraversando il confine con il Camerun e poi rientrando dal sud della Nigeria, prima di trovare rifugio a Yola, dove sono stati accolti tra campi organizzati dal governo e ospitalità della comunità circa 120mila sfollati. Anche se il numero complessivo, compresi gli Stati di Yobe e Borno lievita ad un milione circa di persone. All’entrata di Hong, 150 chilometri da Yola, iniziano a vedersi i primi vigilantes, come vengono chiamati gli uomini locali di etnia Fulani, che cercano di combattere con i pochi mezzi a disposizione i ben più equipaggiati miliziani islamici. Un esercito di circa 200 disperati, con addosso uniformi verdi sdrucite.
Senza risorse
Alcuni stringono machete, altri impugnano fucili rudimentali, realizzati ad hoc dal mekiri, in lingua hausa, colui che fabbrica armi. Di primo acchito un’armata brancaleone dall’esito segnato, in realtà un vero e proprio esercito di circa 80mila unità dal nome stampato su alcune delle uniformi, Civilian Jtf (Joint Task Force). Superata la prima perquisizione accurata, si innalzano alcune grida, «Sarkin Baka, Sarkin Baka». Significa generale in lingua locale. Il suo vero nome è Ade, 38 anni, sul volto i segni della fatica. Ci fa accomodare nel suo «ufficio», un casotto in lamiera senza protezioni. «Hai visto i miei ragazzi? Sono forti».
Da cacciatori a soldati
Inizia un lungo racconto, senza interruzioni, con la speranza che le sue parole giungano il più lontano possibile. «Prima dell’arrivo di Boko Haram eravamo cacciatori, andavamo nelle foreste per sfamarci, adesso la nostra gente ci va per scappare – racconta il capo dei vigilantes – fino a qualche anno fa alcuni dei nostri ragazzi era affascinato dall’idea di uno Stato islamico, poi quando ci siamo resi conto che ci tagliavano la gola come capre e l’esercito non ci aiutava, abbiamo deciso di armarci contro di loro». Il governo vi supporta? «Non ci ha mai dato niente, né armi, né macchine, né soldi, né tantomeno cibo – prosegue Ade – chi è rimasto nei villaggi fa una colletta alimentare per darci da mangiare, qualcuno ci fornisce anche dei mezzi di trasporto».
La superstizione
Girano voci che i vigilantes utilizzini «poteri magici» per fermare Boko Haram. All’improvviso Ade si scopre l’uniforme verde e mostra uno strato di cuoio che arriva fino all’avambraccio. «È inciso nella pelle e grazie ad una patina di terra forma uno strato repellente ai proiettili, lo stesso impasto ce lo mettiamo sugli occhi prima di combattere ci aiuta a riconoscere un militare da un membro di Boko Haram, quelli indossano le stesse divise dell’esercito?». Per questo motivo molti dei civili sono stati uccisi barbaramente perché credevano che erano arrivati i militari a liberarli e invece erano i guerriglieri di Shekau. Delle urla arrivano perentorie, i suoi vigilantes hanno riconosciuto un affiliato del gruppo terrorista probabilmente venuto nel villaggio per fare scorte alimentari. Ade si alza, gli basta uno sguardo per farci capire che è ora di andarsene.