Corriere della Sera, 9 febbraio 2015
Matteo Salvini in Sicilia scatena l’orgoglio terrone. Tra lanci di uova e cartelli con la scritta «Je suis terun», il leader leghista si scusa per i toni del passato e ricorda che «l’isola ha le principali cariche dello Stato (Mattarella, Grasso, Alfano) e una disoccupazione da record»
Non arriva a nuoto dallo Stretto come fece Grillo. «Non ho il fisico», ironizza Matteo Salvini. Ma prova pure lui la conquista della Sicilia. Cominciando da Agrigento e dai disastri di consiglieri comunali colti con le mani nel sacco dei gettoni di presenza. Accolto da un crescendo di consensi che agita i notabili della città dei Templi dove attacca il ministro Angelino Alfano, sfidato con la beffa di un suo deputato trevigiano, Marco Marcolin, già in corsa come sindaco.
Ecco un Salvini a tutto campo che invoca tasse per tutti al 15 per cento, la fine dell’embargo contro Putin, lo stop all’immigrazione, tirando un sospiro di sollievo per la fine del patto del Nazareno, pronto a rivedere presto Berlusconi «per capire se ha davvero compreso le fregature di Renzi, impegnato ad occupare con la Sinistra ogni poltrona possibile, un pericolo per la democrazia».
Un Salvini in felpa bianca con la scritta «Sicilia» a grandi caratteri sul petto «e sul cuore», come celia chiedendo scusa ai siciliani per gli insulti del passato quando arriva a Palermo e, oltre a centinaia di fedelissimi, trova l’Hotel des Palmes assediato da cordoni di agenti antisommossa per tenere a bada duecento ragazzi dei centri sociali impegnati in lanci di uova, pomodori e arance.
Una ostile accoglienza segnata dalle bandiere della Trinacria agitate fra cartelli che rovesciano parolacce sui leghisti, mentre divampa la pagina Facebook dell’«orgoglio terrone» e un interrogativo modula il dialetto stretto per evocare gli insulti antimeridionali attribuiti a Salvini: «Tu scuiddaisti (hai dimenticato) quando dicevi che la valigia di cartone fa rima con terrone?». Nella città che Salvini scopre passeggiando al Politeama e inneggiando ai cannoli («Li cerco anche a Milano ma non sono così buoni»), le ironie diventano manifesti da collezione: “Je suis terun», «Salvini è come il dado nella caponata» (un’eresia per il piatto a base di melanzane).
La replica arriva con quel fare schietto di Salvini che ammette l’errore: «Certo, ne abbiamo fatti, ne ho fatti io, ma non ho mai attaccato i meridionali, i siciliani. Piuttosto la classe politica al governo di questa terra che potrebbe essere una miniera». Minimizza i cori del passato e rilancia: «Roba da stadio. Ma grido cose orrende pure contro il Verona. E da milanista tifo Palermo contro l’Inter». Applausi a scena aperta nell’austera sala del caminetto di questo albergo-santuario degli intrighi siciliani dove si presentano tanti dirigenti della vecchia An, compreso l’ ex presidente dell’Assemblea siciliana, Guido Lo Porto, oltre a ex seguaci di Raffaele Lombardo, come l’onorevole Angelo Attaguile, accanto al leader che, a scanso d’equivoci, pianta paletti. Bolla la mafia come «nemico pubblico numero uno», scoraggia chi vorrebbe salire sul suo carro («Deve essere impeccabile da tre generazioni») e bastona l’Autonomia «per il cattivo uso che se ne è fatto», citando Pietrangelo Buttafuoco e dicendo di pensarla come lui mentre sferza il governatore siciliano: «L’autonomia alla Crocetta è fallimentare».
Da Agrigento a Palermo ha testato i temi del lavoro, delle casse vuote, del rischio default e ha buon gioco a descrivere il paradosso: «L’isola ha le principali cariche dello Stato (Mattarella, Grasso, Alfano) e una disoccupazione da record».