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 2015  febbraio 06 Venerdì calendario

Se per fare il camionista devi fingerti romeno. Autisti italiani costretti ad iscriversi alle agenzie interinali dell’Est per continuare a giudare. Spiega Pasquale Russo, segretario generale di Conftrasporto: «Lì, il minimo salariale è di 300 euro al mese, contro i nostri 1.600: anche se la paga in mano al lavoratore non sarà per forza più bassa, su quel minimo si calcolano contributi e tasse». Naturalmente ci sono anche meno diritti

Pagati meno, spogliati di assistenza sanitaria e di contributi pensionistici. Il tutto, per paradosso, in base a un principio cardine dell’Unione europea, la libera circolazione dei lavoratori. Le 20 ore di fila al volante e i controlli sulla durata delle soste – persino quelle per necessità fisiologiche – rivelati da alcune inchieste giudiziarie non sono più l’ultima frontiera dello sfruttamento dei camionisti italiani. La nuova schiavitù è strutturata, lede i loro diritti ma sottrae anche soldi alle casse dello Stato. E rischia di contribuire alla crisi di un intero comparto, quello del trasporto su gomma, su cui viaggia l’80% delle merci in Italia. La nuova schiavitù sconfina verso Est. Nelle agenzie del lavoro di Polonia, Romania, Repubblica Ceca, Slovenia, dove i camionisti italiani ora vanno a iscriversi. Si auto-delocalizzano. Un passaggio obbligato, spesso, per lavorare nelle nostre aziende. Che così possono applicare loro il contratto di quei paesi, e risparmiare dal 35 al 50% tra carichi contributivi e fiscali.
«Il minimo salariale in Romania è di 300 euro al mese, contro i 1.600 italiani: anche se la paga in mano al lavoratore non sarà per forza più bassa, su quel minimo si calcolano contributi e tasse», spiega Pasquale Russo, segretario generale di Conftrasporto. Il cuneo fiscale è la leva, il dumping sociale la conseguenza. Le vittime non sono solo i lavoratori, che avranno contributi pensionistici più bassi e perdono la copertura Inail sugli infortuni, anche se avvenuti in Italia, perché sono assunti con un contratto di somministrazione dall’agenzia interinale polacca, ceca, slovena o rumena. Ci perde, proprio per questo, anche l’Italia: le tasse le versa chi assume, nello Stato in cui assume. «Senza contare l’indotto, a cominciare dall’Iva sul camion non immatricolato in Italia, o l’assicurazione, anche questa stipulata fuori», fa notare Russo.
In teoria è tutto legale: è la libertà di circolazione dei lavoratori, i cui regolamenti attuativi risalgono al 1996, quando l’Ue contava 15 stati membri (Polonia, Repubblica Ceca e Slovenia sono entrate nel 2004, la Romania 2007), con retribuzioni e normative fiscali non tanto dissimili. In realtà la legge prevede che ogni azienda dell’autotrasporto possa assumere in somministrazione al massimo il 16% del totale. Ma si fa all’italiana: controllare chi per lavoro si sposta sempre è difficile, e così, fanno sapere da UilTrasporti, spesso la soglia viene superata. Secondo un calcolo del sindacato, su 400mila camionisti a livello nazionale, circa il 30% è in somministrazione. Tra loro ci sono stranieri, ma anche italiani che «si fingono tali».
Altri Paesi della «vecchia europa» dove sta esplodendo il fenomeno sono corsi ai ripari: la solita Germania ha imposto per legge che tutte le imprese che transitano, caricano o scaricano entro i suoi confini rispettino un minimo salariare di 8,50 euro all’ora. In Italia a muoversi è proprio Conftrasporti, perché alla lunga questa situazione non fa bene alle imprese che rappresenta: «Rischiamo di perdere un intero asset, come accaduto per il comparto del tessile di Prato», dice il segretario. «Negli ultimi cinque anni il saldo tra nuove imprese aperte e chiuse (che spesso vuol dire delocalizzate, ndr) porta un segno negativo preoccupante: meno 18mila. L’Italia deve adeguare le sue politiche, non per fare un favore alle nostre imprese, ma per fare un favore a sé stessa».
Mentre diverse interrogazioni parlamentari a Roma giacciono senza risposta, il 26 febbraio Russo volerà a Bruxelles. In commissione Ue Affari Sociali, per sollevare il problema. E proporre che sia fissato un salario minimo convenzionale per tutti, «1000 euro, ad esempio», per tutti i lavoratori fortemente mobili all’interno dell’Ue.