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 2015  febbraio 06 Venerdì calendario

Bambini sepolti vivi, crocifissi e venduti con tanto di cartello del prezzo al collo e bambine spose a nove anni. Il mercato degli schiavi nello Stato Islamico

Bambini crocifissi, sepolti vivi, decapitati, stuprati e usati come scudi umani o trasformati in kamikaze. L’orrore dello Stato islamico, nella sua avanzata in Iraq non ha fine, come denuncia un rapporto della Commissione delle Nazioni Unite per i diritti sull’infanzia con sede a Ginevra.
Gli esperti dell’Onu denunciano e bollano come aberrante «l’uccisione sistematica dei bambini appartenenti a minoranze etniche e religiose da parte del cosiddetto Isil (Stato islamico ndr), tra cui diversi casi di esecuzioni di massa di ragazzi, rapporti di decapitazioni, crocifissioni e di bimbi sepolti vivi».
Il 15 e 16 agosto scorso i tagliagole vittoriosi del Califfato nella loro avanzata in Iraq hanno massacrato gli abitanti della minoranza yazida del villaggio di Kotcho. Secondo il ministro iracheno per i Diritti umani, Mohammed al Sudani, 500 persone, soprattutto uomini, sono stati passati per le armi. Le donne ed i bambini hanno subito una fine peggiore: sepolti vivi in fosse comuni.
Il rapporto dell’Onu conferma, che «un alto numero di bambini è stato rapito» dai seguaci della guerra santa «e molti hanno assistito all’uccisione dei loro familiari e subito abusi sessuali».
Il 23 giugno a Mosul, l’attuale «capitale» del Califfato in Iraq, lo Stato islamico aveva cominciato a riscuotere la jizya, la tassa della sopravvivenza imposta ai cristiani. Una famiglia non poteva pagarla e tre tagliagole hanno violentato la madre e la figlia davanti al padre, che si è suicidato. Nello stesso periodo sono stati documentati altri 11 casi di stupro oltre al sequestro di due suore e tre orfani.
Le Nazioni Unite confermano che il Califfato ha messo in piedi dei «mercati» per gli schiavi da vendere, non solo donne, ma pure bambini «con tanto di cartellino con il prezzo» al collo. L’Onu rivela l’esistenza di una vera e propria «schiavitù sessuale dei bambini detenuti nelle prigioni di fortuna del cosiddetto Stato islamico, come l’ex carcere Badoush fuori Mosul».
I minori, non solo cristiani, sono stati «sistematicamente uccisi, torturati, violentati, forzati a convertirsi all’Islam e tagliati fuori dall’assistenza umanitaria». Il disegno del Califfato è chiaro secondo l’Onu: «Sopprimere, espellere o ripulire in maniera permanente (le zone occupate, ndr) per distruggere le minoranze».
I minori sono stati arruolati a decine come «soldati» del Jihad. Non solo addestrati alla guerra, ma utilizzati per esecuzioni di prigionieri. In altri casi i più piccoli sono stati usati come scudi umani per impedire alla coalizione anti Califfato di bombardare determinati obiettivi.
Renate Winter, uno dei 18 esperti indipendenti della Commissione di Ginevra, spiega che esistono «segnalazioni di bambini, mentalmente instabili, utilizzati come kamikaze, probabilmente senza capire cosa stavano facendo». Un video mostra degli arteficieri iracheni mentre salvano un ragazzino-bomba dello Stato islamico, che si è arreso imbottito di esplosivo. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu, destinatario del rapporto, ha espresso «profonda indignazione» per gli abusi sui minori in Iraq.
Il destino peggiore è quello delle ragazze ridotte a schiave del sesso dai tagliagole della guerra santa in nome di un assurdo decreto conosciuto come «Jihad al Nikah». Dopo essere state abusate le loro stesse comunità di appartenenza chiedevano alle forze governative di Bagdad di «bombardare scuole ed ospedali, che servivano da prigioni di fortuna delle donne e ragazze violentate» si legge nel rapporto Onu. Il motivo è terribilmente chiaro: «Uccidendo le vittime dello stupro veniva “salvato l’onore” della (loro) gente nelle città assediate» dai tagliagole della guerra santa.
Fausto Biloslavo
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Devono sposare i combattenti a nove anni, restare sempre in casa e studiare solo maglia e cucito. Dedicarsi ai bambini e alla casa e partecipare alla jihad, ma solo in caso di estrema necessità. Eccolo lo stile di vita delle donne secondo l’Isis. È racchiuso in otto regole rigidissime, che sono state raccolte in un vero e proprio manifesto dello Stato islamico al femminile. Il documento è stato battezzato «Women of the Islamic State» e, per la prima volta, mette in chiaro cosa i combattenti si aspettano dalle loro compagne. Ma c’è un particolare che rende questo manifesto ancora più agghiacciante: a scriverlo non sono stati i jihadisti, ma un gruppo miliziano in rosa noto come al-Khanssaa Brigade. Ed è stato poi riconosciuto dal cosiddetto Femail Islamic State, ovvero lo Stato islamico delle donne, che ha numerose adepte in Siria e Iraq.
Il manifesto, in diecimila parole, traccia l’identikit della compagna del combattente ideale. È stato pubblicato per la prima volta lo scorso gennaio, ma solo in lingua araba. Poi è approdato in Europa quando Charlie Winter, un ricercatore della Quillian Foundation – ha sede a Londra e si occupa proprio di estremismo – lo ha tradotto in inglese. L’obiettivo, decantato già nelle prime righe, è «chiarire il ruolo delle donne musulmane e lo stile di vita che è bene che seguano». E, inoltre, «chiarire quali sono le reali condizioni delle donne all’interno dello Stato islamico». Scorrendo il regolamento sembra di fare un balzo indietro di mille anni. E di dimenticare secoli di progresso, sociale e di genere. Le regole del manifesto sono, infatti, rigidissime e quasi incomprensibili per noi occidentali. Le prime riguardano la sfera propriamente sociale delle donne. La prima indica che l’età più appropriata per sposarsi è nove anni. E raccomanda alle famiglie di scegliere per le bambine un marito/combattente di età compresa fra 16 e 17 anni, «quando si trova al massimo della sua forza fisica». La seconda impone alle donne di restare chiuse in casa, rigorosamente con la porta chiusa. E di uscire solo in circostanze eccezionali: per seguire la causa della jihad – qualora il marito sia impossibilitato -, per studiare religione e per insegnare, sempre nel rispetto della sharia. La terza parla proprio del lavoro, etichettandolo come una forma di corruzione che non dovrebbe mai contaminare una donna. Si passa poi all’abbigliamento: bisogna restare sempre nascoste e velate. E scrutare la società attraverso quel velo. Le donne non hanno diritto neanche alla cura del corpo: negozi alla moda e saloni di bellezza sono banditi, perché rappresentano una manifestazione del male. Anche in tema di educazione nulla è lasciato al caso. Così il manifesto indica cosa una donna può studiare, in base alla sua età. Dai sette ai nove anni sono ammesse solo tre lezioni, per imparare i rudimenti di religione, arabo e scienze naturali. Dai dieci e dodici anni possono essere intensificate le lezioni di religione, specialmente finalizzate alla comprensione del ruolo delle donne. Possono essere introdotti anche corsi di maglia, cucito e cucina. Infine dai 13 ai 15 anni le lezioni devono essere focalizzate sulla sharia e sulla cura dei bambini. È possibile anche studiare la storia dell’islam e la vita del Profeta. Ma si devono abbandonare le scienze.
Quanto all’occidente, secondo le donne dello Stato islamico il modello sociale europeo è fallito quando «le donne sono state liberate ed è stato permesso loro di uscire di casa». E quando gli «infedeli hanno introdotto nel loro modello falsità e materialismo».
Daniela Uva