la Repubblica, 6 febbraio 2015
La Giordania tra lutto e voglia di guerra. «Attacco di terra contro l’Isis». Il dolore per il pilota ucciso sembra unire il paese dietro il sovrano. Nelle strade la gente piange, ma teme il contagio del conflitto
Sfreccia nell’azzurro cielo giordano lo squadrone di caccia F-1-6in formazione d’attacco. Compie un ampio giro a bassa quota sul villaggio di Ayy, vicino alla città di Karak 120 chilometri a Sud della capitale, dove la grande tenda delle condoglianze della famiglia Kasasbeh è ancora affollata di divise, dignitari, ministri, donne, bambini e gente comune. Re Abdallah II è seduto a fianco a Sefi Kasasbeh, il padre del pilota bruciato vivo dai miliziani del “Califfato”, e indica col dito il cielo e l’omaggio che i piloti da guerra hanno voluto fare alla famiglia del loro compagno d’armi.
Il volto di Muaz, il giovane pilota “martire”, è ovunque, in tv, sui manifesti per le strade, sulle prime dei giornali. Non si parla d’altro in tutto il regno. Di colpo questo giovane pilota è diventato il figlio di tutta la Giordania. Seduti fianco a fianco con la tradizionale kefiah rossa dei beduini del deserto, re Abdallah e Sefi parlano fitto fitto, la commozione di tutti i presenti è palpabile.Il Comando aereo giordano ha fatto sapere solo in serata che i caccia avevano colpito poco prima la città di Raqqa, in Siria, la capitale “de facto” del Califfato, esattamente dove lo scorso 24 dicembre era stato abbattuto l’ F-1-6 giordano. «Il sangue del martire Muaz al-Kasasbeh», aveva detto il sovrano in mattinata prima di salire su un pullmino e guidare personalmente dalla capitale fino a Karak, «non sarà inutile e la risposta giordana e del suo esercito sarà severa».Re Abdallah ha ben chiaro che il suo Paese sta per essere risucchiato dentro la nuova guerra del Medio Oriente, quella contro lo Stato islamico (Is): «La Giordania sarà dura perché questa organizzazione terroristica non solo ci combatte, ma lotta anche contro l’Islam e i suoi valori puri». Soprattutto perché il regno hashemita – lo dice la sua storia – ha sempre dovuto lottare per la sua sopravvivenza, dai tempi di Abdallah I, il capostipite, passando per Hussein, il padre dell’attuale re, e che seppe salvaguardare l’unità del regno facendo inseguire i feddayn palestinesi dalla sua Legione Araba nel settembre del 1970 e resistendo anche all’ondata del terrorismo negli anni Novanta. Oggi questo giovane sovrano, ha solo 53 anni, è chiamato al difficile compito di tenere unito e compatto il Paese per affrontare una sfida alla quale non è possibile dare un orizzonte temporale: la guerra al Califfato potrebbe durare ancora degli anni.Tutti i giornali giordani ieri mattina aprivano con la notizia che presto il re potrebbe ordinare una escalation militare terrestre, ordinando un’operazione «rapida e fulminante» contro i jihadisti. Medita anche di rivedere la sua strategia nel quadro della coalizione internazionale anti-Is guidata dagli Usa. Mohammad al-Momani, portavoce del governo di Amman, ha annunciato che il Paese intensificherà i suoi sforzi nel quadro della coalizione internazionale contro il Califfato. «Stiamo discutendo – ha detto – di una maggiore collaborazione nella coalizione per intensificare gli sforzi per fermare il terrorismo e farla finita con Daesh», l’acronimo arabo dell’Is.Inviare truppe speciali di terra è però un coinvolgimento diretto e ad alto rischio. I giordani che nelle strade invocano la guerra sono ancora travolti dallo shock e dalla rabbia; sono più freddi gli strateghi militari. «In questa fase, le operazioni militari terrestri sembrano improbabili, ma le forze armate non esiteranno a far fronte a eventuali minacce che potrebbero sorgere ai nostri confini», spiega a Repubblica Reda Btoush, ex generale e vice presidente del Centro nazionale per la sicurezza e la gestione delle crisi. Gli attacchi aerei sono la scelta migliore per il momento, spiega il generale in pensione, «la guerra di terra è improbabile che avrà luogo oggi, ma in un prossimo futuro ci potranno essere operazioni straordinarie sul terreno in modo mirato contro obiettivi specifici nelle mani dell’Is».La tragica morte del giovane pilota sembra aver “riunito” le tante famiglie e tribù beduine in cui è sempre stata divisa la Giordania, e anche rinsaldato il rapporto di questo giovane sovrano con il suo popolo, sfilacciato e scostante finora. I suoi quindici anni di regno non sono stati facili e le critiche non sono mancate, anche a Corte sono circolati molti veleni. Abdallah non era destinato a diventare re. Il predestinato era il giovane Hamza, l’ultimogenito di Hussein, che all’epoca era troppo giovane per salire al trono. I rapporti fra Abdallah II, primogenito della seconda moglie di Hussein, e il fratellastro Hamza sono sempre stati molto tesi. Abdallah è diventato erede al trono – dopo una vita spesa in Gran Bretagna all’Accademia militare di Sandhurst, è capitano dei dragoni della regina Elisabetta – richiamato dal padre sul letto di morte. Re Hussein fece promettere al primogenito che avrebbe passato l’eredità del trono al fratellastro Hamza. Ma Abdallah nel 2004 tolse il titolo al fratellastro – a cui sono sempre andate le simpatie dell’uomo della strada – nominando erede al trono il suo primogenito Hussein.Sono stati anni difficili per il re, contestato per i suoi vestiti di Savile Row, i primi ministri cambiati in continuazione (15 in 16 anni di regno) e le riforme mai avviate. «Non conosce nemmeno bene la nostra lingua, parla l’arabo che insegnano agli stranieri», sosteneva la gente per la strada rimarcando ancor più le distanze con questo re “arrivato dall’estero”. Clamorosa nel 2010 fu la lettera firmata da 36 capi tribù che contestava lo stile di vita dei sovrani, paragonando quello sontuoso della regina a quello della rapace moglie dell’ex presidente tunisino Ben Ali. Mai nessuno prima aveva contestato pubblicamente un discendente diretto del Profeta.Adesso l’onda emotiva che si è rovesciata sulla Giordania sembra d’un colpo aver allontanato tutto questo. Il re-soldato piace ai giordani, ma il piccolo regno è preda di spinte che sembrano contrapposte, tra chi chiede maggiore adesione alla tradizione e chi invoca riforme moderne. E l’eco della guerra è lì, a meno di duecento chilometri.