il Fatto Quotidiano, 5 febbraio 2015
Maria Elena Boschi rassicura: «La norma sul 3% non salva Berlusconi». In realtà, se retroattiva come sembra, farebbe saltare decine di processi, da quello ai Riva per l’Ilva ai vertici del colosso farmaceutico Menarini
La faccenda è ormai uno scontro tra fiorentini e non, ma prendiamoli sul serio: della frode fiscale non si può fare a meno. “Tutto è lecito, ma non tutto è utile”, spiegava l’altra sera – scomodando San Paolo – il sottosegretario Graziano Delrio a proposito della norma del 3%, la “salva Berlusconi”. “Non lo riguarderà”, ha assicurato invece 24 ore dopo Maria Elena Boschi, difendendo la misura. Parliamo di quel cavillo infilato – insieme a diversi altri a favore delle banche – a Palazzo Chigi la vigilia di Natale nel decreto attuativo della delega fiscale, e che salva chi evade o froda il Fisco sotto il tre per cento del reddito (o dell’Iva) dichiarato. Tutto congelato in attesa del 20 febbraio prossimo.
L’ipotesi caldeggiata dal Tesoro, che in questi giorni sta premendo sull’entourage renziano – insieme a ciò che di non renziano è rimasto nei vertici di Palazzo Chigi – è di escludere la frode, provando anche a mettere un tetto massimo alla sola evasione (come è già previsto). Renzi sonda il terreno e prova il colpo, contando sui dettagli tecnici. Inserire una soglia percentuale anche per la frode, infatti, non violerebbe la legge delega, a patto che ci sia un limite. “Così com’è, è molto inopportuna”, spiega Marco Causi (Pd), membro della commissione Finanze della Camera ed esperto di fisco ascoltato dal premier. Una volta approvato il nuovo testo, toccherà alla commissione esprimere un parere, che non è vincolante: “Formalmente la possibilità di mettere delle percentuali sulla frode era stata prevista, ma dal punto di vista politico bisognerebbe rifletterci molto attentamente – spiega Causi – Quel che è certo, è che senza un tetto massimo si darebbe un segnale preoccupante alle aziende: incentiverebbe quelle grandi a creare nei loro bilanci aree oscure, che potrebbero arrivare a centinaia di milioni, se non a miliardi di euro”. A preoccupare gli esperti, e le Procure, c’è anche la norma che salva le banche che hanno evaso il fisco con strumenti complessi, come i derivati, se inserite nelle scritture contabili, mentre l’Agenzia delle entrate ha contestato l’articolo che cancella la possibilità di raddoppiare i termini di accertamento (il buco per l’Erario sarebbe di 16 miliardi). Nella versione del Tesoro, poi stravolta a Palazzo Chigi dalla “manina” di Renzi, quelle norme non c’erano: “Sarebbe auspicabile – conclude Causi – che venissero cancellate, così come quella che salva chi fa fatture false sotto i mille euro”. La partita, però, è nelle mani degli uomini più vicini al premier, che ha dato l’ordine di difendere pubblicamente la norma, mentre ai suoi ministri assicura che “la soluzione finale sarà come in Francia (dove però la soglia per la frode è 153 euro, ndr)”. E così martedì, il ministro per le Riforme – che si consulta col premier prima di qualsiasi uscita pubblica – ha ribadito quanto detto due giorni prima: “La legge Severino (che rende Berlusconi incandidabile fino al 2018 dopo la condanna per frode fiscale nel processo Mediaset, ndr) non è un effetto penale, ma amministrativo della condanna, quindi non decade con la norma del tre per cento”. La legge Severino, però, collega l’incandidabilità a una condanna penale, se questa viene completamente cancellata da una norma che depenalizza il reato, cade il presupposto stesso dell’incandidabilità. Per intenderci, Berlusconi potrebbe addirittura chiedere di essere reintegrato in Parlamento, in quanto “riabilitato”.
Il cerchio magico berlusconiano – Verdini in testa – l’ha poi presentata come un segnale di apertura all’ex Cavaliere in vista delle elezioni per il Quirinale. “Noi vogliamo solo evitare il carcere a chi sbaglia, raddoppiandogli le sanzioni”. Per sua natura, però, il reato di frode esclude l’errore. Ma la norma è retroattiva e farebbe saltare decine di processi eccellenti, da quello ai danni della famiglia Riva, patron dell’Ilva, alla famiglia Aleotti, proprietaria del colosso farmaceutico Menarini.