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 2015  febbraio 05 Giovedì calendario

Perché il piccolo regno di Giordania è così importante?

La Giordania è l’unico Paese del Medio Oriente di cui non si parla mai. Quale ruolo svolge in quell’area tormentata, in cui tutto è precario, compresi i confini? Ho visto i reali partecipare in prima fila alla manifestazione di Parigi a favore della libertà di espressione, dopo la strage perpetrata dagli estremisti islamici. Che cosa può fare il regno di
Abdullah II, qualora venisse coinvolto?
A chi potrà rivolgersi per aiuti? Israele rimarrebbe indifferente di fronte ad una tale eventualità?
Giorgia Gasperini
giorgina.gasperini@hotmail.it

Cara Signora Gasperini,
È vero, la Giordania meriterebbe maggiore attenzione. È un piccolo Paese (poco meno di sei milioni di abitanti) ed è afflitto da parecchi malanni. Ha una disoccupazione abbastanza elevata (il 14%) e un debito pubblico pari all’80% del Prodotto interno lordo, ha bisogno di petrolio proveniente dal Sinai (una regione che è recentemente diventata un campo di battaglia) e ospita una massa di rifugiati siriani che erano, nello scorso agosto, più di 600.000. La popolazione è per metà palestinese, un popolo poco amato dalle tribù beduine che già abitavano queste terre prima della creazione di un emirato di Giordania, per opera della Gran Bretagna, dopo la fine della Grande guerra e di un regno dopo la Seconda guerra mondiale. Come ha ricordato Lorenzo Cremonesi sul Corriere di ieri, le tribù sono ancora per molti aspetti la spina dorsale di questo piccolo Stato che ha tuttavia una nobile storia e un profilo politico alquanto superiore alle sue dimensioni economiche e demografiche.
Il suo primo sovrano, Abdullah I, è figlio di Al Hussein, capo della grande tribù hascemita dell’Arabia, sceriffo della Mecca, amico di Lawrence d’Arabia, alleato dell’Inghilterra nella grande rivolta araba contro i turchi ottomani durante la Prima guerra mondiale. Nel 1948, quando gli Stati arabi cercarono di opporsi alla creazione dello Stato israeliano, la Giordania fu il solo che uscì vincitore dal conflitto. La sua Legione Araba, comandata da un leggendario generale inglese (Glubb Pascià), conquistò la Cisgiordania e i vecchi quartieri di Gerusalemme. Il suo re fu ucciso da un nazionalista palestinese a Gerusalemme, sulla soglia della Moschea di Omar, nel luglio del 1951; ma il figlio Hussein divenne col passare del tempo la voce araba più autorevole della regione, il leader realista che fu tra i primi a rendersi conto della necessità di un accordo con Israele. Era grande amico di un uomo di Stato israeliano, Ytzhak Rabin, due volte Primo ministro e padre, con Arafat, degli accordi di Oslo. Con lui Hussein firmò, sul prato della Casa Bianca, il trattato di pace del 1994. E all’amico morto, quando fu assassinato da un colono israeliano, volle rendere omaggio attraversando la frontiera di notte per fare personalmente le sue condoglianze alla vedova.
Ho l’impressione che il figlio, Abdullah II, abbia ereditato il buon senso e il realismo del padre. Qualche tempo fa, parlando di Mohamed Morsi (leader della Fratellanza musulmana e presidente dell’Egitto dal 2012 al 2013) disse bruscamente che non aveva capito la questione palestinese. Ed è stato altrettanto franco quando si è espresso sulla politica islamica del presidente turco Erdogan e sullo stile politico del presidente siriano Bashar Al Assad. Come diceva John Major della Gran Bretagna, la Giordania ha un ruolo politico superiore alle sue dimensioni.