La Stampa, 5 febbraio 2015
Luchino Visconti era pronto a girare un film sui Promessi Sposi, poi il progetto saltò. Un libro ricostruisce la vicenda
Esistono storie che hanno il fascino dell’incompiutezza e – teste Gozzano – delle cose che potevano essere e non sono state. Come quella raccontata, con grande copia di documenti, da Salvatore Silvano Nigro e Silvia Moretti: Promessi sposi d’autore. Un cantiere letterario per Luchino Visconti (Sellerio, pp. 189, € 16). Andò così. Nel dicembre del 1954 il musicologo Guido Maggiorino Gatti, amministratore delegato della Lux Film, inviò una lettera circolare a un gruppo di scrittori in cui si chiedevano suggerimenti per una nuova trasposizione cinematografica del capolavoro manzoniano. Il film precedente di Mario Camerini, girato nel 1941, appariva obsoleto, viziato da stereotipi edificanti.
A muovere il committente era il successo internazionale ottenuto dalla traduzione inglese del romanzo a opera di Archibald Colquhoun. Ma cospiravano all’intento altre più intime ragioni. Negli anni segnati dalla guerra e dall’oppressione, dalla fame e dall’esilio, lettori insospettati avevano riconosciuto in Manzoni una voce fraterna. Valgano per tutti i nomi di Leone Ginzburg e Giorgio Bassani che – scrive Nigro -, reduci dalle carceri del fascismo, lo avevano considerato «un compagno di veglia, un alleato dei loro pensieri».
«La guerra» e «La peste»
Tra gli scrittori coinvolti da Gatti figuravano oltre a Bassani, al quale sarà assegnato il trattamento definitivo del film, Soldati, Moravia, Bacchelli, Baldini, Emilio Cecchi e il conte Guglielmo Alberti, personaggio di ascendenze cattoliche e gobettiane, che era il più convinto patrocinatore dell’impresa. Gli scritti superstiti (e qui raccolti) offrono una testimonianza, di per sé suggestiva, del loro rapporto, che si risolve talora in un corpo a corpo, con il «gran Lombardo». Dove si manifesta una divaricazione riconducibile sostanzialmente a Moravia e a Bacchelli. L’uno portato a esaltare nel romanzo, a scapito delle vicende private, l’insuperato quadro storico e sociale, «il disfacimento e la corruzione»; l’altro attento a salvaguardarne, contro le prevaricazioni di ordine realistico e storicistico, la grandezza e la poesia religiosa: non solo la guerra, la fame, la peste, ma anche i travagli vissuti da Renzo e Lucia all’ombra della Grazia.
A questo punto però compare, convocato dietro le quinte, Luchino Visconti in veste di ipotizzato regista (va ricordato tra l’altro che egli era discendente diretto di Francesco Bernardino Visconti, l’Innominato di Manzoni). Gli furono recapitati i dattiloscritti dei consulenti ed egli, si disse, avrebbe pensato di dividere il suo film in due episodi, intitolati La guerra e La peste. Con questo non intendeva uniformarsi alle vedute di Moravia. Nel 1956, in una intervista a L’Express, annunciava le sue intenzioni a proposito del film annunciato: «Io vorrei conservare tutto. Altri vorrebbero tagliare, Moravia, per esempio: a sentire lui, bisognerebbe cambiare tutto. Per lui, Manzoni non conta!». Per Visconti, che era legatissimo alla terra lombarda e aspirava da tempo a realizzare una «storia milanese», contavano anche le disavventure dei due popolani.
Fantasmi manzoniani
Il progetto stenta tuttavia a trovare il giusto passo. Le esitazioni della Lux Film, dovute anche alla morte del proprietario Riccardo Gualino, l’accantonamento provvisorio del film manzoniano, si spiegano con la decisione di portare sullo schermo Il Gattopardo con la regia dello stesso Visconti. Occorre approfittare del folgorante successo toccato al libro di Lampedusa. Le riprese si protrarranno per tutto il 1962, decretando di fatto il distacco dai Promessi sposi. Visconti si assoggetta a malincuore alla rinuncia, tant’è che fatica a liberarsi dai fantasmi manzoniani. Ancora nel 1961, gira un provino per un film sulla Monaca di Monza, commissionatogli da Carlo Ponti e mai realizzato. Dirige le inquadrature con in mano una copia dei Promessi sposi. Un testimone racconta di avere visto la protagonista giacere a terra in abito di monaca. Quella donna era Sofia Loren. E con lei, con l’immagine della sua prostrazione, Luchino Visconti si accommiata definitivamente da Alessandro Manzoni.
Nigro e Silvia Moretti, già sua allieva, hanno messo insieme un libro avvincente, per il rigore dell’inchiesta e la sollecitazione inventiva delle fonti. Hanno raccontato la storia di un sogno deluso, che compone nello stesso tempo un capitolo pressoché sconosciuto, intrecciato di cinema e letteratura, della nostra cultura novecentesca.