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 2015  febbraio 05 Giovedì calendario

L’Orlando Furioso, fenomenologia di un best seller, dalle letture erudite ai fumetti, dalla radio al kindle. Un monumentale volume Treccani racconta l’opera di Ariosto

L’Orlando Furioso si trovava fra le offerte di ebook gratuiti su Amazon, in un’edizione che contiene solo testo e indice, e così ho cliccato sul pulsante senza star tanto a pensarci sopra: primo titolo scaricato sul Kindle, anni fa. Soltanto in seguito ho capito quanto quella scelta sbadata fosse invece significativa. Ne ho avuta la piena certezza quando ho incominciato a navigare in quell’oceanica opera editoriale che Lina Bolzoni ha appena curato per la Treccani: L’Orlando Furioso nello specchio delle immagini. Altro che ebook! Ottocento pagine di buona grammatura, 515 immagini riprodotte come meglio non si potrebbe, venti saggi di studiosi, che coprono l’orizzonte che va dalla prima edizione del 1516 a Luca Ronconi, al gioco da tavola disegnato e prodotto da Guido Crepax, alle illustrazioni di Grazia Nidasio per l’edizione antologica di Italo Calvino e alle opere ariostesche di Mimmo Paladino.
Un’opera editoriale, dicevo: ma di quell’editoria che confina con l’edilizia: cofanetto, trenta centimetri e oltre di altezza e larghezza, più di sette chili di peso (senza indicazioni di prezzo). Ora volume e Kindle sono vicini sul tavolo e il loro confronto dice molte. Una delle prime conseguenze della comparsa dell’ebook è stata che ora nessuno può ignorare che un conto è il libro, un conto è il testo. L’ebook, almeno nella sua spartana forma originaria, è testo nudo. Le note sono possibili, ma anche scomode da consultare. A volte non c’è praticamente impaginazione. Non c’è tridimensionalità, ma solo un flusso di righe immateriali. Peraltro leggere l’ Orlando Furioso in metropolitana o in autobus, qualche ottava per tratta, ha una sua sorprendente congruità. Eruditi e specialisti a parte, è ovvio che non tutti i vocaboli e i passaggi si capiscano, mentre la scomodità dello sfoglio disincentiva i ritorni sulle pagine già lette per riallacciare nella memoria i fili delle diverse vicende che Ariosto riprende e sospende in continuazione. Ma poco importa. Nei termini della semiotica di Umberto Eco non si mira ad avvicinarsi al «Lettore Modello» del Furioso: se ne dà una lettura che è non interpretazione ma uso pulsionale. In parole più povere, si torna bambini, e bambini lettori di fumetti. I bambini che leggono un fumetto magari destinato a ragazzini appena più grandi di loro, immaginano, saltano le parti che non capiscono, seguono la vicenda o si soffermano sulla vignetta che fa ridere. Così io, in metro, con l’Ariosto: se non capisco, passo all’ottava seguente, mi godo una sorta di «stanza narrativa» senza volermi fare un quadro generale. È uno dei testi che meglio lo consente. Ecco per esempio il duello di Mandricardo e Rodomonte. Se le stanno dando sode, da formidabili guerrieri come sono entrambi: «Fra mille colpi il Tartaro una volta / Colse a duo mani in fronte il Re d’Algiere / Che gli fece veder girare in volta / Quante mai furonfiacole e lumiere». Un coltissimo amico mi ha fatto notare una volta che l’idea figurativa che uno sganassone da fabbro ferraio faccia vedere punti luminosi e stelle è la medesima praticata dai fumettisti e dai cartoonist: da Mandricardo a Wile E. Coyote.
Ritroviamo il bambino che guarda i fumetti senza capirli e si inventa una storia sua nella lezione di Italo Calvino sulla «visibilità», laddove lo scrittore ricorda le «letture» del Corrierino fatte prima di avere imparato a leggere e le considera come l’imprinting ricevuto per la sua futura attività di narratore. I suoi racconti, dice, sono tutti incominciati da un’immagine mentale: il ragazzino che sta su un albero, il cavaliere che consiste nella sua sola armatura esteriore... Oltre a curare il celebre Ariosto radiofonico (selezionando ottave e narrando con parole proprie gli snodi intermedi), Calvino si è rifatto ad Ariosto anche quando Franco Maria Ricci gli chiese un testo a commento del mazzo dei tarocchi viscontei. A uno dei primi seminari estivi di linguistica e semiotica di Urbino (si tengono ancora oggi), Calvino aveva ascoltato Paolo Fabbri parlare dell’uso dei tarocchi nella divinazione. Dalla relazione del semiologo, ma anche dalle sue fantasie infantili sui fumetti, a Calvino venne da considerare ogni tarocco come la sintesi figurativa di una storia possibile, da estrarre componendo sequenze di carte. Nacquero così i segmenti di quel cruciverba narrativo che è il Castello dei destini incrociati : storie di donne, cavallier, arme e amori dichiaratamente ispirate ad Ariosto.
Un gioco, certo: un gioco che per alcuni è stato contemporaneamente troppo frivolo e troppo cerebrale, assommando gli opposti vizi dell’oziosità e dell’astruseria, rompicapo per scapati. Sarà, ma certo Calvino non fu il primo, se Emanuele Tesauro già nel Seicento parlava di un Labirinto dell’Ariosto, vero e proprio gioco dell’oca in cui i concorrenti si muovevano a colpo di dado tra scene tratte dal Furioso. Come ben spiega Lina Bolzoni introducendo il volume da lei curato, l’esplosione crossmediale del poema non si limitò alle illustrazioni che quasi subito lo accompagnarono. Personaggi e scene ispirarono presto pittura, teatro, musica, persino ceramistica, fino alle arti più popolari delle figurine, dei fumetti, del cinema e della tv. Giochi come quello di cui parla il Tesauro richiedono ai giocatori di ricordare passaggi dell’opera e ne costituiscono così una sorta di teatro di memoria. Ma il Furioso è un teatro di memoria esso stesso: poema-enciclopedia che propone e offre alla conversazione solidi topoi su ogni tema, a partire dalla cortesia in guerra e in amore. Proprio nei termini della calviniana «visibilità», la scrittura ariostesca dà già corpo a ciò che evoca, contiene le proprie figure, così come contiene il teatro, il gioco, la magia, la musica.
Autore di un vero e proprio sequel, Ariosto aveva dunque presagito qualcosa che ritroviamo nei nostri ipertesti e nella nostra crossmedialità. Come sottolinea Lina Bolzoni, il poema non fa che invitare il lettore a un viaggio cognitivo: uscire dalla propria realtà, rivedere i propri parametri di verosimiglianza e di credulità e porsi il problema dell’ontologia dell’ippogrifo o quello dei canoni di un’esplorazione lunare. Il saggio dell’accademica della Normale di Pisa si apre con Ludovico Ariosto in arrivo a Mantova, con le copie della prima edizione del suo poema da offrire a corte, ma anche da vendere. Già Matteo Maria Boiardo aveva alluso al «guadagno dello stampatore», in relazione alla lunghezza e alla struttura dell’ Orlando Innamorato (o L’innamoramento de Orlando). Fra l’ Innamorato e il Furioso si interpone la data fatidica dell’anno 1500, lo spartiacque fra incunaboli e libri a stampa. Nel volgere di pochi decenni, Ariosto è già cosciente di rivolgersi non più a dame e gentiluomini di corte, ma a un’entità molto più indifferenziata, che in tutto il mezzo millennio successivo si sarebbe chiamata «pubblico». Non ci si può immaginare Dante Alighieri che si preoccupa delle vendite della Commedia. Ariosto lo fa già al momento della stesura del testo. Dalle analisi di Lina Bolzoni e degli studiosi che ha radunato, Ariosto appare chiaramente consapevole della relazione fra testo e lettori. Anzi la incorpora direttamente nel testo e ne fa un tema della sua opera, a volte allegorico ma a tratti anche esplicito. Sia letteratura sia gioco incominciano a funzionare quando attirano persone nel proprio gorgo, le interpellano, pretendono una loro risposta, sospendendo il flusso del tempo e immergendole in un tempo a sé. L’ Orlando furioso ne è un esempio superbo. Dopo è stato arduo evitare di tener conto della messa in gioco, cioè della in-lusio, in cui la letteratura consiste. È per questo che può essere proclamato il «primo bestseller». Ed è per questo che averlo (anche) nel Kindle è significativo, negli anni in cui ci chiediamo se l’ebook sia parte della prima vera rivoluzione culturale dopo Gutenberg. Se cioè i new media non stiano sovvertendo quei rapporti fra autore, testo e lettore e quei canoni di produzione e distribuzione che la cultura occidentale ha stabilito proprio dai tempi dell’Ariosto.