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 2015  febbraio 05 Giovedì calendario

Oltre Uber, ecco il taxi senza pilota. Per cancellare in un colpo solo le polemiche sulle licenze e sulla professionalità di chi guida. Ora anche Google lancia la sua sfida ai tassisti della porta accanto, già braccati dai conducenti tradizionali. E intanto l’Italia pensa a una soluzione per dotarsi di regole più severe

Vivono in clandestinità. Braccati dai tassisti, inseguiti dalle associazioni dei consumatori, ora attaccati anche da Google, che pure dovrebbe essere il proprietario della loro azienda e che invece sta diventando il concorrente: «Abbiamo deciso di studiare un servizio di taxi senza pilota per i nostri dipendenti», ha detto due giorni fa uno dei manager di Mountain View a un giornalista di Bloomberg. Così tra poco arriveranno le GoogleCar, un’altra tegola sulla loro testa.
Loro sono gli uomini di Uber, meglio di UberPop, i tassisti della porta accanto. Quelli che lo fanno senza licenza e senza una centrale che li protegge come la mamma. Il cliente scarica un’app sullo smartphone, chiede un’auto, effettua la corsa e il cellulare funziona da tassametro. Il costo viene detratto dalla carta di credito. Chi arriva sotto casa è un autista reclutato da Uber ma non ha licenza per auto pubbliche: è un privato che ha solo la patente di guida, come chiunque sia al volante. La pubblicità promette costi ridotti. In Italia il prezzo medio di una corsa è di 7 euro.
«È una pratica illegale perché nessuno può esercitare abusivamente una professione. Ti faresti operare da un chirurgo che non ha studiato medicina e che hai trovato per caso con l’iphone?», dicono al ministero dei Trasporti. Il ministro Maurizio Lupi promette la linea dura: «Non possiamo accettare illegalità». Due settimane fa, a Torino, i tassisti hanno organizzato un raid contro un teatro che aveva osato servirsi di Uber per riaccompagnare i clienti a casa. Mazze sui parabrezza, clienti tirati fuori a forza dalle auto, la destra che grida in Consiglio comunale. «Uber è un problema di ordine pubblico». Come era già successo a Milano nel maggio scorso: parapiglia, scioperi di protesta e vertice in prefettura.
Che i tassisti protestino è normale. Ma a lungo andare chi vincerà? La battaglia contro l’app che trasforma il cellulare in tassametro, gli assalti ai parabrezza delle auto di Uber, ricordano inevitabilmente le irruzioni dei tessitori dell’Ottocento nelle fabbriche inglesi per mandare in frantumi i primi telai meccanici, il gesto del leggendario Ned Ludd che fa a pezzi la macchina per difendere il lavoro. Battaglia epica che non fermò certo la rivoluzione industriale. Battaglia di retroguardia? «Sono un fautore della tecnologia, ed è evidente che la mobilità nelle nostre città debba evolvere», premette il ministro Lupi. Ma, aggiunge, «UberPop non offre le garanzie necessarie per un servizio pubblico. Non dà certezze ai clienti sull’abilitazione del guidatore, sul suo stato di salute o sulla sua tossicodipendenza, come invece viene accertato durante le visite periodiche alle quali si sottopongono i tassisti». Per questo il ministero promette presto norme più severe. Una strada, pare di capire, potrebbe essere quella di sequestrare l’app. Ma si sequestra un’icona sul cellulare? Non si arriverà a tanto. Aumenteranno i controlli sulle strade. Ma la tentazione sarà probabilmente più forte dei divieti. Soprattutto in casi di grande emergenza. A Parigi, nelle ore drammatiche seguite all’assalto alla redazione di Charlie Hebdo, quando non si trovava un taxi nemmeno piangendo, le chiamate a Uber si sono impennate.
Mentre in Europa le proteste più forti vengono dai tassisti, nel resto del mondo i grattacapi maggiori arrivano dai consumatori, proprio quelli che dovrebbero essere beneficiati dalla start up californiana. Tutto nasce dalla sventatezza di tal Emil Michael, un manager che nei mesi scorsi ha creduto di parlare in confidenza a un gruppo di giornalisti. Tra questi anche al direttore del sito BuzzFeed che ha reso pubblica l’imbarazzante chiacchierata. Si è così appreso che il cellulare si può trasformare certo in tassametro ma in questo modo trasmette a Uber Pop tutti gli spostamenti dei clienti, anche quelli che non hanno nulla a che vedere con la corsa in taxi. Il grande fratello si chiama “God view” e sta creando non pochi grattacapi ai vertici della società. In una intervista a Repubblica. it, il responsabile di Uber per l’Italia, Tomaso Rodriguez, aveva provato a minimizzare: «Esiste un sistema di controllo della logistica delle singole città ma noi non abbiamo direttamente accesso a quelle informazioni. In ogni caso tutti gli accessi dei dipendenti sono tracciati». Ma che cosa accadrebbe se un giorno Uber decidesse di vendere a qualcuno il suo consistente pacchetto di dati sensibili?
 Il tema della violazione della privacy appassiona soprattutto in America e rischia di intaccare l’immagine di una società che ha un valore stimato vicino ai 40 miliardi di dollari e una presenza in 150 città di 46 paesi del mondo. Accanto all’UberPop che crea i maggiori problemi, ci sono servizi meno urticanti ma non meno temibili per i tassisti come quello delle auto a noleggio. Qui non c’è il problema della licenza. A Milano si osserva che le auto a noleggio, secondo la legge, dovrebbero avere una rimessa nel territorio comunale. Ma l’obiezione somiglia più a un cavillo che a una solida questione di principio.
La storia delle licenze, che sta facendo sollevare i tassisti di mezza Europa, potrebbe essere superata proprio dalle GoogleCar. Se il servizio per dipendenti dovesse funzionare, potrebbe essere esteso a tutti i cittadini. L’auto chiamata con il cellulare arriverebbe da sola, senza conducente e senza polemiche sulla sua professionalità. Più che un’auto, un robot, inappuntabile, senza malattie e senza cattive abitudini: una scena da Star Treck. La speranza dei conducenti delle auto pubbliche è che la tecnologia ci metta ancora un po’ prima di andare addirittura oltre Uber.
Per il momento quello che rischia davvero il posto in tutta questa storia è il signor David Drummond, rappresentante di Google nel consiglio di amministrazione della start up dei taxi chiamati dall’app. Che è accusato dai suoi colleghi del cda di aver fatto il doppio gioco con Mountain View creando un concorrente fatto in casa. Si dice che Drummond potrebbe essere presto messo alla porta. E certo quelli di Uber non gli pagheranno il taxi per il trasloco.