la Repubblica, 5 febbraio 2015
Il fiume di parole speso attorno all’elezione di Mattarella lascia sul campo una sensazione ineludibile: che quel poco o quel tanto di decente di cui la politica italiana dispone risale alla Prima Repubblica
Il fiume di parole speso attorno all’elezione di Mattarella, “novità” che ha radici in una delle culture politiche più antiche dell’Italia moderna (quella cristiano-sociale), lascia sul campo una sensazione ineludibile: che quel poco o quel tanto di decente di cui la politica italiana dispone risale alla Prima Repubblica. Non stiamo parlando di anagrafe e dunque di persone; stiamo parlando di idee, di visioni della cosa pubblica, di calibro culturale. E questo significa, detta un po’ all’ingrosso, che ciò che abbiamo chiamato forse affrettatamente Seconda Repubblica ha lasciato sul terreno abbastanza poco: populismi assortiti (tanto virulenti quanto effimeri), secessionismo abortito, culto dei Capi, corruzione perfino rinvigorita e una notevole sbracatezza di modi e di parole. Non è una constatazione nostalgica. È che alla luce dei fatti suonano più moderne, ovvero più adeguate alla sfida del presente e del futuro, le parole della Costituzione (che è scritta benissimo, tra l’altro, asciutta e non retorica) piuttosto che quelle di una convention degli anni Novanta. È la stessa ragione “estetica” per la quale molte trasmissioni Mediaset (e della Rai scimmiottante) di dieci o vent’anni fa paiono, a rivederle, molto ma molto più datate di uno Zavoli o di uno Studio Uno o di un Nanni Loy degli anni Sessanta e Settanta.