Libero, 4 febbraio 2015
Le mille contraddizioni del giovane Ignazio Silone. In una biografia romanzata Renzo Paris racconta i primi trent’anni di vita dello scrittore marsicano: attratto da Roma ma legato alle radici, razionale ma superstizioso, omosessuale ma circondato da donne
Nelle pagine finali della sua lunga, coinvolgente e davvero bella biografia romanzata Il fenicottero. Vita segreta di Ignazio Silone (Elliot, pp. 336, euro 19,50), il traduttore e critico letterario Renzo Paris cita una frase di Roland Barthes: «Ogni biografia è un romanzo che non osa dire il suo nome». Ma cos’è in fondo la biografia di uno scrittore firmata da un altro scrittore se non, almeno in parte, una biografia del secondo oltreché del primo? È una considerazione di valore generale, ma che ha una particolare pregnanza nel caso di quest’ultima opera di Paris, senz’altro fra le sue più ispirate e sentite, nella quale la scrupolosa ricostruzione – basata anche su documenti inediti di straordinaria rilevanza – dei primi trent’anni di vita di Silone è pure, per l’autore, occasione per un’autoindagine psicologica e per un viaggio a ritroso attraverso i momenti cruciali della propria esistenza.
Marsicano come Silone, essendo nato a Celano, in provincia dell’Aquila, nel 1944, Paris torna più e più volte sull’ossessione siloniana che è all’origine del suo libro e che scaturisce proprio dai tratti comuni che egli individua fra la propria biografia e quella dell’autore di Fontamara (cui Paris si riferisce sempre ricorrendo al nome anagrafico, Secondino Tranquilli, e mai allo pseudonimo – Ignazio Silone, appunto – che diverrà a un certo punto il nome ufficiale).
«Sono un marsicano anch’io, non ho dubbi, porto quel tatuaggio profondo impresso nella mia pelle», scrive Paris. E difatti, in questo libro – che è più di un semplice romanzo, essendo un compiuto e originalissimo esperimento letterario in cui confluiscono memorie personali, accurate disamine storiche, rari documenti e fluente scrittura di finzione infarcita qua e là di termini dialettali – i protagonisti sono due: uno, certo, è Ignazio Silone; l’altro è lo stesso Paris, raccontato in prima persona mentre incontra, in un bar romano, Dario Biocca (lo studioso che più si è occupato dell’attività di Silone come informatore della polizia) o mentre familiarizza con alcune zingare che bazzicano la Stazione Termini o, ancora, mentre visita la tomba di Silone al cimitero di Pescina.
Un Silone di cui Paris, con lucidità, rimarca soprattutto un aspetto: la psiche scissa, il continuo ondeggiare, per tutta la vita, fra poli contrapposti. L’attrazione per la grande città (dapprima Roma, raggiunta appena 15enne a seguito del terremoto del 1915 in cui rimase uccisa l’amata madre Marianna, poi Berlino e Parigi) e il viscerale legame con le umili radici abruzzesi; la razionalità che non riuscirà mai a cancellare del tutto il retaggio rappresentato dalle superstizioni dell’infanzia; l’adesione ai principi del socialismo e il fondo irriducibile di cattolicesimo.
E poi – fatto capitale della sua vita assieme alla scoperta, dopo l’uscita dal Pci nel 1930, della vena narrativa – l’essere stato in pubblico un dirigente rosso («fenicotteri» era l’appellativo che, sotto il fascismo, si erano dati i comunisti, in quanto “volavano” da una città all’altra per consegnare la stampa clandestina) e, in segreto, per circa 15 anni, una spia al servizio del commissario di polizia Guido Bellone. Un’ambiguità che ha un riflesso, come Paris dimostra tramite un’ampia e convincente documentazione, anche nella sfera erotica. Bellone era infatti un omosessuale, e tutto lascia credere che quello fra lui e il giovane Secondino sia stato un rapporto molto vicino a un’amicizia amorosa.
Non solo. In un faldone allestito da un amico di Silone, Panfilo Giorgio, e recentemente recuperato da Paris, vi è una carta su cui, in riferimento a Silone medesimo, è scritto a penna: «Impotentia coeundi et generandi». Indizio dell’impotenza sessuale da cui, da tempo, si sospetta che lo scrittore fosse affetto: la moglie Darina Laracy, del resto, ha rivelato a Biocca che il matrimonio fra lei e Ignazio non venne mai consumato.
Il libro di Paris, nella sua densità, è ovviamente molto altro, oltre a ciò che abbiamo detto finora. È soprattutto un prezioso affresco che, rifuggendo impietosamente ogni retorica passatista, ci racconta un’Italia, quella dei primi del ’900, per tanti versi spaventosa, in cui fame, povertà, degrado, malattie, violazione dell’infanzia erano all’ordine del giorno. Un’Italia di cui Tranquilli, che a 15 anni aveva già visto morire sia i genitori sia il fratello maggiore, è in qualche modo un figlio esemplare, capace però di riscattarsi grazie alla propria cultura di autodidatta e al proprio indiscutibile genio.
Paris non ci consente di capire, alla fine del romanzo, se sia giunto a una piena comprensione di sé, e prende le distanze dall’identificazione con Silone («Ignazio Silone c’est moi? Nonostante la mia misantropia, non posso dirlo»). Sembra però uscire rinsaldato in due certezze, e noi con lui: anche quella che sta sempre nel guado può essere una vita piena e significativa, e quasi mai senza nevrosi si dà grande letteratura.