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 2015  febbraio 04 Mercoledì calendario

Il nuovo Capo dello Stato ha parlato di tutto nel suo discorso d’insediamento, dal Papa all’Isis, dalla Resistenza ai marò, ma si è dimenticato di parlare di giustizia. Sarebbe bastato quanto già disse Giorgio Napolitano il 20 settembre 2013, né più né meno: «I magistrati abbiano un’attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto alle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo»

In effetti no, non si poteva pretendere che il nuovo Capo dello Stato parlasse della giustizia come l’avremmo fatto noi profani: ma si poteva pretendere che almeno ne parlasse. Invece nel discorso d’insediamento tra i più omnicomprensivi che si ricordino (dal Papa all’Isis, dalla Resistenza ai fatti di Parigi, dai diritti dei malati ai due marò) il problema della giustizia ha trovato posto solo come declinazione di servizio, anzi – testualmente – come «volto della Repubblica che si presenta nella vita di tutti i giorni: l’ospedale, il municipio, la scuola, il tribunale, il museo».
Dunque una banale questione di prestazioni d’opera, una faccenda di inefficienza organizzativa o di mancanza di risorse e di personale. Come se a colui che è meramente il presidente del Csm, oltreché avvocato ed ex giudice costituzionale, potesse sfuggire che da circa vent’anni il ruolino di marcia di questo Paese è subordinato ai buoni o cattivi rapporti che i poteri esecutivo e legislativo mantengono con le magistrature, laddove procure e tribunali e cassazioni supervisionano i poteri democratici e avanzano in territori che appartenevano alla politica.
Come se la stessa Europa, più volte evocata dal neo Capo dello Stato, non si prefigurasse ormai come un insieme di varie corti (tribunali, cassazioni, l’Aja, Strasburgo ecc) che dialogano tra di loro all’interno di un ordine giuridico globale. Come se – volando più basso – la ripresa economica auspicata dal Capo dello Stato non avesse niente a che fare con la maniera tutta italiana in cui la nostra giustizia è configurata sin dal Dopoguerra: un pm indipendente come nessun altro al mondo, che può agire anche senza l’autorizzazione del capo del proprio ufficio e con provvedimenti d’urgenza, anche senza l’autorizzazione del gip; una magistratura che può bloccare o congelare qualsiasi iniziativa in qualsiasi momento, questo per via di inchieste spesso paludose (con sequestri cautelari senza apparenti limiti di tempo) che possono bruciare tempo e miliardi e sono il terrore di qualsiasi azienda italiana e soprattutto straniera che voglia investire nel nostro Paese.
Tutto questo, nell’ecumenico discorso di Mattarella, si è tradotto soltanto nell’auspicio «che si possa ottenere giustizia in tempi rapidi»: come se in 35 minuti e 40 applausi non si potesse aggiungere altro oltreché parlare di mafia, corruzione e piuttosto – a proposito dei due marò – della giustizia indiana.
Era un discorso di insediamento e certo non si poteva partire lancia in resta, va bene: ma sarebbe bastato quanto già disse Giorgio Napolitano il 20 settembre 2013, né più né meno. Disse questo: «I magistrati abbiano un’attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto alle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo, e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della costituzione repubblicana». Tradotto: dopo vent’anni i magistrati potrebbero anche smetterla di respingere ogni proposta che li riguardi, perché la giustizia così applicata non è per niente «uguale per tutti» come invece recita la Costituzione evocata continuamente da Mattarella.
Ma il nuovo Capo dello Stato, per ora, ha preferito esaltare il «presidio dell’indipendenza di tutte le magistrature» e in separata sede «l’urgenza di riforme istituzionali, economiche e sociali». Fingendo che le due cose, dai tempi della sua Dc, non cozzino una con l’altra.