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 2015  febbraio 04 Mercoledì calendario

Il giuramento e il discorso di Mattarella, tra applausi ed emozione. «Sarò un arbitro imparziale, ma anche i giocatori devono darmi una mano. Dobbiamo parlare a quei tanti cittadini che non aspettano altro che sentirsi davvero ben accetti dalle loro istituzioni»

«Dobbiamo recuperare il senso dell’unità del nostro Paese, consentire ai nostri concittadini di sentirsi davvero parte di un comunità». L’idea che Sergio Mattarella ha del suo ruolo e del suo settennato è nella frase con cui chiude il breve intervento al Quirinale. È lo stesso concetto attorno a cui ha costruito il discorso alla Camera: ricucire il rapporto tra Stato e popolo, tra il Palazzo e la piazza; parlare a «quei tanti cittadini che non aspettano altro che sentirsi davvero ben accetti dalle loro istituzioni». Due le parole più citate: unità e speranza.
Era un giorno delicato, perché è delicato il confine tra la solennità e la magnificenza, tra la sobrietà e la retorica. La Flaminia presidenziale e la Panda grigia, il centro di Roma bloccato e sorvolato dagli elicotteri e dalle frecce tricolori. Al Quirinale cavalieri, corazzieri, lanceri (ma anche Briciola, la cagnetta mascotte dei carabinieri); alla Camera commessi in alta uniforme, cardinali, generali, bandiere dappertutto. Suona la campana di Montecitorio. Governo al completo, ministre tutte in nero. In tribuna i tre figli del presidente, Bernardo Laura e Francesco, e le sua donne: la sorella Marinella, in rosso – «sono felicissima» —; la figlia del fratello Piersanti, Maria. Renzi insolitamente formale, con il fazzolettino bianco nel taschino.
I due non potrebbero essere più diversi, e lo si vede appena Mattarella entra in aula: passo un po’ ingessato, giacca abbottonata, braccia tese lungo il corpo, sguardo fisso durante l’applauso lunghissimo che tenta di frenare con gesti imbarazzati (ne avrà 42, compreso quello di incoraggiamento quando non trova più il foglio: «Scusate, avrei saltato un passaggio importante…»). Renzi invece non riesce proprio a stare fermo, si tormenta la fede al dito, spesso è lui a lanciare i battimani, ad alzarsi per primo. Dice Emanuele Macaluso che «quello tra Mattarella e Renzi sarà un dialogo tra contrari: uno è rigoroso l’altro spregiudicato, uno prudente l’altro svelto, uno trattenuto l’altro disinvolto». Ma proprio questo li rende complementari. Non si elidono, si sommano. Si scontreranno magari sul testo delle leggi, il Quirinale vigilerà perché Palazzo Chigi non esageri con i decreti; «però il capo dello Stato ha elogiato le riforme, ha detto che la nuova legge elettorale è necessaria, un motivo in più per accelerare» commenterà la Boschi. Quirinabili più popolari di Mattarella avrebbero forse eroso l’appeal di Renzi; altrettanto avrebbero fatto i quirinabili più impopolari, anche se più noti all’estero. E nel primo discorso il presidente ha ritagliato per sé una funzione compatibile con i piani del premier: «Al Quirinale ci vuole un arbitro» aveva detto Renzi; «sarò un arbitro imparziale» ha detto Mattarella, sia pure richiamando «i giocatori» alla correttezza.
Ma l’obiettivo principale del settennato sarà ridurre la distanza tra lo Stato e il Paese. Una distanza antica, che le tre crisi citate da Mattarella – crisi economica, crisi di rappresentanza, crisi di partecipazione – hanno ulteriormente scavato. «La democrazia non è una conquista definitiva», l’unità non è acquisita per sempre, anzi oggi appare «difficile, fragile, lontana». «Dobbiamo ricostruire quei legami che tengono insieme la società» avverte il presidente con la sua voce bassa dal tono monocorde, «ricollegare alle istituzioni quei tanti nostri concittadini che le avvertono lontane ed estranee», «fare vivere la Costituzione tutti i giorni», diritto per diritto, a cominciare da quelli allo studio e al lavoro. E qui le due «curve» del Parlamento giocano agli applausi incrociati: Mattarella nomina gli italiani all’estero e si leva in piedi la destra, cita gli immigrati e si alza la sinistra; la destra si scalda per i marò, la sinistra per i cooperanti; la famiglia è rivendicata a destra, come «la giustizia da ottenere in tempi rapidi», la lotta all’evasione e l’impegno per la pace a sinistra; la «libertà nella sfera affettiva» anima più che altro il sottosegretario Scalfarotto che lavora alla legge sulle unioni civili; «l’autonomia e il pluralismo dell’informazione» è tra i pochi passaggi a cadere nel vuoto; l’elogio dei «giovani parlamentari» e della loro «capacità di critica e persino di indignazione» scioglie i grillini, apparsi comunque non ostili. Tutti applaudono i riferimenti a papa Francesco, Ciampi e Napolitano, che si alza a ringraziare. Quando poi Mattarella ricorda la Resistenza, pare si alzi persino La Russa, che però nega: «Io ero già in piedi, in quel momento mi sono seduto».
In un discorso di mezz’ora parco di riferimenti internazionali, colpisce l’insistenza sul rischio terrorismo: l’allarme dev’essere a livelli più alti di quelli percepiti dall’opinione pubblica. Tutti si levano per Falcone e Borsellino, quasi nessuno ricordava Stefano Taché, il bambino ebreo di due anni ucciso nell’attentato dell’82 alla sinagoga di Roma. Alla fine, dalle tribune i leghisti Maroni e Zaia accennano un applauso, sia pure più tiepido di quelli del cardinale Vallini, vicario di Roma, e dei politici in pensione, Fini, Marini e Castagnetti.
«Vorrei che il Quirinale fosse sempre più la casa degli italiani» esordisce Mattarella nel salone dei Corazzieri: pensa di ampliare gli orari e le zone aperte al pubblico, ridimensionare la macchina burocratica, tagliare i costi. Fuori però la piazza è piena di autoblù, guardate con perplessità dalla piccola folla, venuta con cartelli di benvenuto. Segue ricevimento. I parenti hanno tutti la stessa andatura un po’ bloccata, la stessa aria timida: il figlio di Maria Mattarella, Giovanni, nipote di Piersanti, guarda per cinque minuti la Boschi, incerto se presentarsi o no, poi si scuote e osa: «Gentile ministro, sono il pronipote del presidente…». I politici invece si lasciano andare, brindano, scherzano. Renzi sta parlando con Padoan, arriva Berlusconi sorridendo: «Perché non mi presenti questo signore? Mi dicono sia meno birichino di te». «Ma tu sei ancora più birichino di me» risponde Renzi. E a Gianni Letta: «Abbiamo fatto una graduatoria, io sono il meno birichino di tutti». E comunque Padoan non ha davvero lavorato per il Quirinale, se soltanto ora parla per la prima volta con Berlusconi, argomento il fiscal compact: «Il mio governo aveva posto il veto in Europa – racconta l’ex premier —, poi con Monti è passato, lavoriamo insieme per liberarci da queste pastoie…». Berlusconi definisce Mattarella «una figura dignitosa, una bella presenza, con quella chioma bianca…». Poi va dalla Bindi ma i due non sono proprio fatti per intendersi, «l’ho vista commossa, non pensavo che un uomo, pardon una donna potesse piangere tanto», «io invece pensavo che l’età l’avesse resa più galante», «io sono sempre galante» replica lui accennando un baciamano; lei gira le spalle e se ne va. Molto osservati gli altri quirinabili: Fassino pallidissimo; Giuliano Amato in forma, «Sergio era il mio preferito, dopo di me s’intende».
Tra le tante parole della giornata, resterà la chiusa del discorso alla Camera: «Per la nostra gente, il volto della Repubblica è quello che si presenta nella vita di tutti i giorni: l’ospedale, il municipio, la scuola, il tribunale, il museo. Mi auguro che negli uffici pubblici e nelle istituzioni possano riflettersi, con fiducia, i volti degli italiani». Mattarella cita i bambini, i ragazzi, gli anziani, i malati, i disoccupati, le donne, gli imprenditori, i volontari. «Non ha lasciato fuori un italiano» sorride Pino Pisicchio. «Un discorso tecnicamente moroteo», commenta Tabacci. È anche un giorno di risarcimento per i cattolici democratici, cultura minoritaria ma preziosa: Giovanni Bachelet che al funerale del padre Vittorio assassinato dalle Br prega «per coloro che hanno colpito il mio papà», la scienza mite di Leopoldo Elia, certo anche il sacrificio di Piersanti Mattarella, mai nominato ma evocato da Pietro Grasso. «Ho conosciuto Sergio ai funerali del fratello, 35 anni fa – racconterà a fine giornata —. Lui era un giovane docente di diritto, io un giovane magistrato. Se oggi siamo entrambi qui, lui capo dello Stato, io presidente del Senato, vuol dire che la mafia non ha vinto. E non vincerà».