la Repubblica, 3 febbraio 2015
I discorsi della corona. Da quelli telegrafici di De Nicola ed Einaudi a quelli interminabili di Cossiga, Scalfaro e del primo Napolitano. Ciampi, che ha parlato per un mezz’ora, è stato il più applaudito. Di quello di Pertini invece si ricorda la bella conclusione: «Si svuotino gli arsenali, si riempiano i granai»
Tra il notaio e l’Imperatore si colloca, in una vertigine di gradazioni e lungo un’infinità di sfumature, la figura del presidente della Repubblica italiana – e per farsi un’idea di come sarà il prossimo e di come parte il settennato è giocoforza che si parta dal messaggio di insediamento.
Che cosa dirà Mattarella? In che modo e cioè con quale linguaggio lo dirà? Quanti minuti durerà il suo discorso d’indirizzo? E da quanti applausi sarà interrotto? Grosso modo sono questi i punti, non di rado illusori, che consentono di valutare l’impatto politico, il tipo di ruolo che il nuovo presidente si assegna e lo stile del nuovo Capo dello Stato.
L’ormai lunga storia presidenziale consente paragoni, ma fino a un certo punto. Cossiga (1985), Scalfaro (1992) e il primo Napolitano (2006), ad esempio, risultano i più prolissi, oltre 40 minuti; ma se Ciampi (1999), che parlò per meno di mezzora, non è stato forse il più breve in assoluto, De Nicola (1946) ed Einaudi (1948) essendosi limitati a una specie di telegrafica presa d’atto, è anche compreso fra i più applauditi, con 19 interruzioni a scena aperta.
Del discorso di Pertini (1978) si ricorda la bella conclusione, quasi ottocentesca: «Si svuotino gli arsenali, si riempiano i granai». Ma a pensarci bene, forse l’esordio risuonò ancora più vivido e sorprendente, quando gelando ogni solenne festevolezza il vegliardo disse che al suo posto, se le cose purtroppo non fossero andate in un certo modo, ci sarebbe stato Aldo Moro, ucciso meno di due mesi prima.
Ma anche l’ultimo Napolitano (2013) resta impresso per i toni severi e per il momento drammatico in cui le sue parole vennero pronunciate: pianti e vergogna in aula, Bersani costretto ad andarsene da un’uscita laterale, Montecitorio in pratica preso d’assedio, Grillo che minacciava di calare a Roma... Il vecchio presidente richiamato come unico leader morale presente su piazza fu a tal punto sferzante da rendere quel messaggio una specie di lungo ultimatum. E tuttavia ciò che rendeva terribile la situazione erano proprio quegli applausi che si levavano come l’ultima tassa pagata all’inganno e all’ipocrisia.
Il punto delicato è che per certi versi la retorica quirinalizia è obbligata e quasi tutti i nuovi presidenti, una volta presa la parola dallo scranno più alto di Montecitorio, dicono le stesse cose. Il valore della democrazia, la salvaguardia delle istituzioni, la fedeltà alla Carta costituzionale, la necessità di preservare l’unità nazionale, l’impegno per l’occupazione e per i giovani che sono il futuro. Quindi, a partire dagli anni 90, si sono aggiunti: l’impegno a battere la corruzione e la criminalità organizzata, a rafforzare il processo per un’Europa più integrata e più solidale e naturalmente ad adeguare l’impalcatura dello Stato con una serie di riforme eccetera. Senza contare – anche questo come portato del sopraggiunto bipolarismo – la rassicurante promessa che ogni nuovo Capo dello Stato si sente in dovere di esprimere in maniera ormai quasi rituale: sarò il presidente di tutti gli italiani.
Ora, le liturgie si ripetono anche per confermare quel che si sa già. Per cui, al netto delle convenzioni e delle litanie (cui nessuno meglio dei politici nel loro indispensabile sa attribuire il giusto valore) si tratta di individuare piuttosto le novità che l’orazione inaugurale reca in sé.
Per dire: Gronchi (1955) scodellò a sorpresa un vero e proprio programma politico che si sovrapponeva con quello del governo. Era il preannuncio di una presidenza interventista o se si preferisce «impositiva». Mentre i discorsi di Segni (1962) e di Leone (1971) vengono per lo più ignorati nei testi di studio, o classificati come mere «esternazioni protocollari».
Di Giuseppe Saragat, che si sentiva un mezzo Padreterno, rimase impresso l’insolito atto di umiltà: «Mi inchino grato e commosso, consapevole dell’altezza del compito affidatomi e della debolezza delle mie forze»; e, su un piano più politico, l’accento posto sulla Resistenza, in qualche modo interpretato come un grazie al Pci che aveva contribuito ad eleggerlo. Così come, nel caso del primo discorso di Cossiga, fece un certo effetto, oltre a una serie di citazioni molto dotte e accademiche, l’invocazione finale: «Con l’aiuto di Dio». Che nel caso di Scalfaro, quasi più predicatore che politico, si estese nel chiedere la protezione «a Colei che, umile e alta più che creatura, è madre di Dio e dell’uomo».
Sempre più dipende comunque dal modo in cui prima la stampa e poi la televisione accolgono i messaggi del giuramento. Da questo punto di vista, nel recente «Presidenti.
Storia e costumi della Repubblica nell’Italia democratica», a cura di Maurizio Ridolfi (Viella) il professor Raffaello A. Doro classifica (giustamente) i Capi dello Stato, la loro immagine e il loro stile, a seconda dell’evoluzione mediatica distinguendoli fra pre televisivi, paleo televisivi, neo televisivi e appartenenti all’epoca della rete.
Mattarella, che pure sembra così tradizionale, si inserisce senz’altro in quest’ultima categoria. Questo rende ambivalente la sua prima prova. Semplice e insieme complicata. In ogni caso vale la pena aprire gli occhi e le orecchie. Il linguaggio al giorno d’oggi è fatto anche di gesti, e non è detto che le parole vogliano dire tutto.