La Stampa, 30 gennaio 2015
Ahmed, il bambino francese e musulmano di otto anni portato in commissariato perché nella sua scuola aveva rifiutato di unirsi alla universale deprecazione dell’orrendo attentato contro il settimanale satirico «Charlie Hebdo». La Francia si interroga su una storia spaventosa
Ahmed è francese e musulmano. Ripetiamolo per non dimenticarlo: francese e musulmano. Ahmed ha otto anni. Lo hanno portato in commissariato gendarmi di quella République che ha inventato l’eguaglianza, la Rivoluzione, i diritti umani, quasi tutto. Se non fossero veri, potrebbero grottescamente esser sbucati dal racconto di Pinocchio: fermato, il bambino, «ope legis» perché nella sua scuola aveva rifiutato di unirsi alla universale deprecazione dell’orrendo attentato contro il settimanale satirico «Charlie Hebdo».
Richiesta evidentemente estesa anche ai minori. Il sospetto per le quinte colonne, gli infiltrati, le cellule dormienti, si propaga oltre gli orli del fatto, così come una macchia di inchiostro si espande sulla carta assorbente, acida e nera. Ahmed dunque è il luccichio minorile di quell’altra Francia, adulta, che non ha sfilato nei boulevard e che resta pericolosamente ostile e rabbiosa. Il terribile silenzio di quelli che non dicono niente, il silenzio di coloro che sanno di essere perduti.
Hanno denunciato, per proprietà transitiva, il padre: per apologia di terrorismo. La legge (purtroppo! devono aver pensato i tutori dell’ordine repubblicano) non consentiva di proseguire nella punizione del mini terrorista. Che cosa diventerà quel bambino, ora che la realtà l’ha così brutalmente gettato al di la dello specchio, ora che gli tocca riconoscere la insensatezza speculare del mondo? Gli sarà ancora possibile guardare con meraviglia che è la vera magia dell’infanzia? La prima partita della vita l’ha perduta. O forse davvero il passaggio dalla innocenza alla saggezza avviene nel momento in cui ci accorgiamo che non tutti ci vogliono bene… Si impone qualche considerazione sul senso di colpa. Nell’Ottocento la Francia è stata protagonista della scienza positivistica che tendeva a dissolvere l’idea di colpa. L’uomo non era responsabile dei suoi delitti che venivano ricondotti alle tare fisiche, alla ereditarietà, alla educazione, all’ambiente. Tutto questo poteva chiudersi in una massima: anche il colpevole è innocente. Oggi viviamo in un sentimento opposto, si tende ad imputare a ognuno le colpe che non ha commesso: della sua razza, del suo popolo, della sua classe, dei suoi padri, della sua religione. Il principio è: anche l’innocente è colpevole. Un soffio di colpevolezza, di rimorso senza perché, esce da tutto il mondo totalitario che abbiamo attraversato e ahimè! stiamo attraversando.
Questa colpa totalitaria è il fondamento tragico delle epurazioni moralistiche. Il boia è sempre puro, l’assassinato sempre colpevole.
I gendarmi che hanno così puntigliosamente condotto al commissariato il precoce «terrorista» (e il maestro che ha li ha convocati) ignorano di avere dei precursori. Non sanno che la rivoluzione siriana, poi diventata guerra civile e ghiotta occasione di incubazione proprio del fanatismo islamista, ha avuto come miccia proprio l’arresto di alcuni ragazzini da parte dei «mukhabarat», i servizi di sicurezza del regime di Bashar Assad. Colpevoli di aver scritto su un muro «Bashar vattene!», slogan orecchiato durante una manifestazione contro il regime. «Terroristi potenziali»: sentenziarono immediatamente i gendarmi siriani, meglio prevenire: e li portarono al commissariato.
La domanda è: cosa ci distingue da loro, dai lanzichenecchi del califfo, dagli assassini del fanatismo, dalle guardie pretoriane del totalitarismo islamico e loscamente laicista? Non le parole scritte sulle costituzioni o nei discorsi dei politicanti, sono stinte, vuote, non basterebbero. Ci distinguono un sostantivo e un verbo: la capacità di distinguere. Tra il terrorista e un bambino per esempio, tra la vittima e gli assassini. E l’applicare il diritto che è misura e ragione e non la sharia della colpa collettiva.