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 2015  gennaio 30 Venerdì calendario

Un secolo di Roland Barthes. L’avventura di un grande pensatore tra i frammenti del pop. Ricordo del pensatore che indagò per primo i miti della contemporaneità

“Si fallisce sempre nel parlare di ciò che si ama” era il titolo del saggio che Roland Barthes aveva appena concluso per un convegno italiano su Stendhal e Milano, il 26 marzo 1980, quando fu investito da un furgoncino. Ricordo che uscì su La Repubblica. Barthes aveva sessantacinque anni non ancora compiuti, e oggi ne avrebbe cento, età non implausibile, visto che Lévi-Strauss quando è morto nel 2009 di anni ne aveva 101. Ma non era vero che di ciò che si ama si deve tacere. A Barthes è riuscito tantissime volte di parlare dei suoi amori: della madre e della fotografia come sopravvivenza della vita dopo la morte (La camera chiara), della stupidità e del suo potere seduttivo e commovente (L’ovvio e l’ottuso), e soprattutto della vita di tutti i giorni.
Se gli scritti più accademici oggi ci appaiono datati, Miti d’oggi è forse il testo più attuale, di una attualità tanto più stupefacente visto che i fenomeni di cui si occupa sono vecchi di sessant’anni.
Dipinti in questi testi più o meno brevi troviamo temi come il vino rosso e la bistecca con le patate fritte come alimenti identitari francesi, la Citroën DS (“déesse”, dea) come Nautilus e nuova cattedrale, il Tour de France come epopea, il catch come spettacolo sordido e adorato, i romani che sudano vaselina tutte le volte che pensano nel Giulio Cesare di Mankiewicz. Definire il settimanale femminile Elle “vero tesoro mitologico” non è affatto inappropriato, specie da parte di chi dedicherà un libro al sistema della moda con la stessa serietà con cui gli etnologi studiavano i sistemi elementari di parentela.
Nelle Mythologiques Lévi-Strauss classificava i miti esotici, nelle Mythologies (questo il titolo originale di Miti d’oggi, molto più esplicito e meno circoscritto di quanto non risulti nella traduzione, che vuole attualizzare l’eterno) Barthes classifica i miti di casa sua, o più propriamente i suoi miti. Così, le pagine che Barthes dedica, poniamo, allo stereotipo dello scrittore in vacanza, con Gide che risale il corso del Congo leggendo Bossuet, o dello scrittore che corregge le bozze, o riordina le memorie o gli appunti («E quello che non fa niente lo confessa come una condotta veramente paradossale, una prodezza d’avanguardia»), sono perfette e feroci soprattutto perché non sono diverse dal modo in cui Barthes si ritrae in pubblico. Si pensi, ad esempio, a quando, in Barthes di Roland Barthes, ci parla della “gioia di classificare” che riempie le sue vacanze nel sud-ovest della Francia, aggiungendo una propria foto in calzoni corti e sigaro tra i denti.
Dunque, a ben vedere, si parla solo di ciò che si ama. Bisogna aver visto un bel po’ di incontri di catch, letto innumerevoli réportages di l’Equipe, e possedere l’integrale di Paris Match, per poter parlare con tanta competenza di lotta, ciclismo o cucina. Bisogna aver sfogliato tante pagine di posta del cuore per poterne condurre analisi non meno impeccabili (e molto più partecipi) di quelle dedicate alla Fedra di Racine e per contaminarle con Proust e con Goethe nei Frammenti di un discorso amoroso. E il fatto che Barthes se la prenda proprio con i miti della piccola borghesia indica indubbiamente una scelta statistica (Madame Bovary è più diffusa che Oriane de Guermantes), politica (formatosi sui testi di Brecht, avrebbe trovato inammissibile decostruire i miti del proletariato), ma soprattutto affettiva. La “fragilità mentale della piccola borghesia francese” di cui spesso ci parla non è un segno di disprezzo, ed evoca piuttosto uno spavento, un timore per sé, pressappoco come quando Baudelaire annota «Oggi, 23 gennaio 1862, ho subito un singolare avvertimento, ho sentito passare su di me il vento dell’ala dell’imbecillità».
Anche Barthes avrebbe potuto dire «Madame Bovary c’est moi!», Elle era forse una lettura della amatissima madre, Henriette Binger, la cui scomparsa, nell’autunno del 1977, lo aveva fatto precipitare in un lutto da cui non si sarebbe più ripreso: «No, il lutto (la depressione) è tutt’altro che una malattia. Da cosa si vuole che guarisca? Per trovare quale stato, quale vita?». Aveva ragione Gide: non c’è niente di più premeditato della sincerità, il che è un altro modo per dire che dallo stereotipo non si esce. Barthes ha amato i suoi miti e ne ha scritto come pochi altri hanno saputo fare. È del resto difficile parlare di un mito senza condividerne qualcosa. Lo stesso culto della scrittura senza autore, alimentato dal Barthes strutturalista e contestato nella pratica di una scrittura autorialissima è, dopo tutto, la consapevolezza, che è di Lévi-Strauss non meno che di Flaubert, per cui è negli stereotipi di Bouvard e Pécuchet o nei turbamenti di Cappuccetto Rosso che si nasconde una potenza collettiva rispetto a cui qualsiasi presa di posizione individuale appare vana come una goccia nel mare.
Questa, in fin dei conti, è la differenza tra l’analisi della cultura popolare svolta da Barthes e la critica della cultura di Adorno, una differenza che va tutta a vantaggio di Barthes. Adorno decreta che la sola musica è la dodecafonia, Barthes ragiona invece sull’immediatezza emotiva e corporea dell’ascolto delle canzonette («Ma pensa se le canzonette/ Me le recensisse Roland Barthes!», cantava Guccini in Via Paolo Fabbri 4-3, senza considerare che forse Barthes le avrebbe trovate troppo dotte e autocoscienti). Adorno definisce l’utente delle rubriche astrologiche come “il tipo di donna anziana coatta e isolata”, Barthes, che non si sarà perso un numero di Astra, ci vede il grado zero della letteratura, sia pure (e rieccoci) piccoloborghese.
Qui sta il grande insegnamento di Barthes. Il pop, ben lungi dall’insegnarci l’originalità, l’avanguardia (non è affar suo), ci mette sulla strada dell’ovvio e dell’ottuso, e ci insegna che, molto prima che creatori di miti, ne siamo fruitori più o meno consapevoli, e soprattutto ne siamo il frutto. Il mito non è qualcosa che si possa guardare dal di fuori. È il mondo in cui viviamo e da cui, semmai, dobbiamo cercare di distaccarci con una riflessione critica. Senza presumere di esserne indenni, salvi o immuni. Lo sapeva meglio di chiunque altro questo frequentatore dei Deux Magots o del Select, della Coupole o di Bofinger, dove, non abbiamo difficoltà a immaginarlo, avrà ordinato bistecca con patate fritte.