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 2015  gennaio 30 Venerdì calendario

E quindi finisce così il Patto del Nazareno? Mentre i falchi berlusconiani incassano orgogliosi i complimenti dei colleghi perché avevano previsto che sarebbe finita male per il Cav., si conferma l’antica regola politica che i patti si fanno per non rispettarli

E dunque cucù, il Patto non c’è più. Nel Transatlantico che va svuotandosi si registrano variazioni a senso unico: patto strappato, stracciato, fallito, rotto, saltato, azzerato, violato, «e quanto ci è costato! – si duole la Santanché – Lacrime e sangue...».
Il Patto del Nazareno. «Se mai c’era stato» incalza il senatore Minzolini, con l’aria chi l’aveva detto. Anzi, a lui, l’ex squalo, l’ha detto anche Berlusconi: «Sei uno stronzo, ma avevi ragione tu». Pure Brunetta l’aveva previsto: «Era un patto leonino». E il rottamatore del Pdl, Cattaneo: «Patto di Giuda». Avanza Bossi: «Renzi ha fregato Berlusconi».
Facile dirlo ora. Ma è anche vero che in politica, più spesso di quanto si pensi, pacta non sunt servanda. Peggio: i patti, come recita un antico e cinico brocardo, si fanno per non rispettarli. Nella Prima Repubblica la più clamorosa e oltraggiosa inosservanza fu quella tra Craxi e De Mita sulla cosiddetta «staffetta» (1987); nella Seconda, per porre un argine alla crescente inaffidabilità, Bossi, Berlusconi, Mastella e chissà quanti altri fecero addirittura ricorso alla figura del notaio.
Ma stavolta evidentemente no. Per qualche mese ci si è anche chiesti se esisteva un testo. Ma accordo era sulla parola. Ed ecco com’è finita. La Terza Repubblica reca in dote alla prevedibile infrazione il profumino del dileggio e della volgarità primordiale. In questo Calderoli non tradisce mai: «Il peto del Nazareno». E anche Storace, sia pure più articolato: «Dal Patto del Nazareno al Nazareno senza piatto».
In giornate solenni come queste ci si vergogna quasi a pensare che l’Italia resta il paese della commedia, non di rado tendente alla farsa. Quest’ultima non guarda in faccia niente e nessuno: e con tale premessa si segnala che dopo il fatidico incontro tra il Cavaliere e Renzi nella sede del Pd a largo del Nazareno, il settimanale berlusconiano Chi rilevò che l’auto del Cavaliere era entrata dal lato della chiesa a fianco, Santa Maria in Via, dove c’è un’icona della Vergine ritenuta particolarmente miracolosa.
Così si può dire che per un anno la «Madonnina dell’Italicum» ha convissuto con strambi segni fioriti in tv e sulla rete, per esempio l’ibrido fotografico «Renzusconi», mentre assai più recente è il bambolotto «Nazareno Renzoni», intervistato a «Servizio Pubblico», così come il logo che doveva orribilmente sintetizzare la compiuta osmosi nazarena, il simbolo del Pd entro cui si inseriva il biscione della Fininvest.
E pensare che forse Berlusconi aveva creduto davvero a quel patto; o almeno credeva – e lo disse pure – che contraendolo sarebbe diventato un «Padre della Patria». Secondo Cuperlo, Renzi lo aveva accolto «sul tappetino Welcome». Ma fin dall’inizio il segretario del Pd avvertiva l’utile di quell’accoglienza, per cui chiese ai suoi: «Vi è piaciuto il cucchiaio?».
Adesso è troppo tardi per stabilire se il patto fosse limitato alle riforme o comprendesse, oltre alla scelta del presidente della Repubblica, altre misteriose clausole. In questo senso il segreto è di norma la spaziosa anticamera dei sospetti e il deficit di trasparenza si tira appresso ogni inconfessabile trama. Né francamente la figura di garante che si era assunto Verdini pareva sufficiente a preservare il trattato da ovvie fantasie e plausibili malignità.
Così mentre Barbara D’Urso cinguettava in tv di «Nazareno gioioso» e il leader dell’ArciGay del Lazio proponeva alla Pascale di estendere il patto del Nazareno ai diritti di lesbiche e famiglie omoaffettive, questo benedetto Patto del Nazareno si è via via caricato di speranze, aspettative, appetiti, mitologie, mitomanie. Le nomine di favore, le «manine» sui provvedimenti, la spartizione dell’etere, la salvezza delle aziende berlusconiane, la grazia per il Cavaliere; e quindi, ineluttabilmente, il partito della Nazione, il partito unico, il partito-tutto, il passaggio di testimone, l’eredità, la discendenza, la babyarchia, la grande pomiciata della coppia più bella del mondo. E adesso? Povero Berlusconi, fiducioso e turlupinato sotto il poster con Castro e Che Guevara che giocavano a golf. I mesti capannelli forzisti ricordavano ieri le classiche pecore senza pastore. Nei singoli smorfie di sgomento, dubbi più esistenziali che parlamentari, occhiate di sbieco, fatica e insonnia. Chi di patto ferisce, di patto perisce. Ma i più tristi erano proprio quelli che mentre avanzava l’ombra severa di Mattarella, cattolico intransigente e grande interprete di versetti del Vecchio Testamento – quanto di peggio poteva arrivargli tra capo e collo, altro che «la ditta»! – si guardavano intorno chiedendosi se per caso, magari, volendo, con qualche piccolo sacrificio, o anche grande, insomma se questo patto del Nazareno si poteva eventualmente continuare, per non restare tagliati fuori, eccetera. Ma intanto cucù, o anche Dudù, ma in ogni caso il patto non c’è più.