Corriere della Sera, 30 gennaio 2015
Lo scambio con la terrorista kamikaze Sajida al-Rishawi è fallito. Il pilota giordano potrebbe essere già morto: «Il sole sta tramontando e il respiro di Mouad al-Kasasbeh se ne andrà con il sole». Angoscia anche per l’ostaggio giapponese in mano all’Isis
Ore di incertezza per le vite degli ostaggi nelle mani dell’Isis. In un audio diffuso nelle ultime 24 ore il giornalista giapponese 47enne Kenji Goto avvertiva che il pilota giordano Mouad al-Kasasbeh, 26 anni, sarebbe stato ucciso se entro ieri al tramonto il governo di Amman non avesse accettato lo scambio con la terrorista kamikaze Sajida al-Rishawi.
«Il sole sta tramontando e il respiro di Mouad al-Kasasbeh se ne andrà con il sole», si legge su un sito jihadista e il messaggio è accompagnato dalla foto di un coltello. Ma è almeno la terza volta nell’ultima settimana che l’ultimatum viene spostato. In verità pare non ci siano principi stabiliti: lo Stato Islamico (Isis o Califfato che dir si voglia) gioca con i suoi avversari e la comunità internazionale come il gatto col topo. A questo punto potremmo scoprire che l’ultimatum scaduto ieri pomeriggio alle 17 e trenta ora di Mosul (le 18 e trenta in Italia) era solo un modo per rilanciare il prezzo sulla vita di al-Kasasbeh. E nelle prossime ore sui siti del «Califfato» potrebbero apparire le macabre immagini della sua esecuzione. O, ancora, neppure quelle e potrebbe ricomparire la versione diffusa lo scorso due gennaio, una decina di giorni dopo che l’aereo di al-Kasasbeh era caduto nella regione di Raqqa (considerata la capitale di Isis in Siria), quando si era vociferato che il pilota fosse morto durante un blitz per tentare di salvarlo coordinato tra le teste di cuoio giordane e americane.
In realtà non sappiamo, possiamo solo attendere. Non stupisce che il governo giordano torni a chiedere prove concrete che il pilota sia ancora in vita. Sono ore di angoscia per la sua famiglia, che insiste per premere sul governo e lo stesso re Abdallah affinché si prodighino per lo scambio. Ma la cosa è complicata. Sino a due giorni orsono sembrava forse più possibile. Però, nelle ultime ore è stato proprio il messaggio con la voce di Goto a rendere tutto più drammatico. Si mischiano qui aspetti umanitari, politici e militari. All’ansia della famiglia del pilota si aggiunge quella della famiglia del giapponese. Da Tokyo la moglie Rinko rivela ai media di essere in contatto con Isis via mail sin dai primi di dicembre. «Abbiamo due bambine giovanissime. Quando lui è partito per la Siria la più piccola aveva solo tre settimane e mezzo, l’altra due anni. Vi prego, fate che le nostre bambine possano riabbracciare il padre», dice.
Isis può uccidere o trattare, rilanciare la posta, giocare su più tavoli, cancellare e riscrivere da un momento all’altro le condizioni. Le osservazioni a caldo che si possono trarre sono che, per la prima volta dalle violenze dell’estate scorsa, l’Isis non chiede riscatti in denaro, bensì scambi di prigionieri. Inoltre rispetto alla Giordania appare il doppio aspetto di rilegittimarsi a partner regionale e soprattutto il tentativo di rafforzare il campo dell’islamismo radicale locale contro la monarchia di re Abdallah, che sino ad ora è stata a fianco della coalizione guidata dagli americani, anche a prezzo di alimentare il malcontento interno.
C’è infine da considerare che in realtà a Isis della al-Rishawi in quanto tale interessa molto poco. Nell’universo militante del radicalismo islamico è una figura minore, più di imbarazzo che rilevanza. Doveva farsi saltare in aria nei grandi alberghi di Amman dieci anni fa. Suo marito è morto con gli altri terroristi del commando suicida e almeno sessanta civili innocenti. Lei no. La sua cintura non è esplosa. Da allora è sempre stata in carcere. Nessuno ne parlava, raramente era citata nelle chat dell’universo radicale islamico, il suo nome non è mai apparso nei proclami di Isis.
La sua storia appartiene al passato di Al Qaeda nell’Iraq del periodo dell’inizio del terrorismo appena seguente l’invasione americana. Isis ha certo forti radici in quegli anni, ma oggi appare ben altro: è figlio del malcontento sunnita in Iraq e Siria, nasce dalla repressione spietata voluta dall’ex governo Maliki a Bagdad e del presidente Assad a Damasco, si congiunge adesso con le colonne della jihad internazionale.
La richiesta della liberazione di questa oscura ex kamikaze fallita è dunque un atto simbolico. L’Isis torna a minacciarci tutti, da Tokyo ad Amman, e si presenta come il legittimo erede dei movimenti estremisti islamici dell’ultimo ventennio.
Lorenzo Cremonesi
*****
Una vicenda dai tempi lunghi, marcata da segnali confusi e dal sovrapporsi dei percorsi negoziali, conseguenza del coinvolgimento di più Paesi, il Giappone e la Giordania.
L’Isis non ha voluto solo terrorizzare con il sacrificio degli ostaggi ma anche monetizzare. In contanti, con la richiesta iniziale di un maxiriscatto, oppure molto più concretamente in propaganda. Una manovra definita scaltra, anche se condotta senza l’abituale coreografia.
Il Califfo ha lanciato la sua sfida in concomitanza con il rovescio di Kobane, la cittadina curda dove ha lasciato sul campo centinaia di militanti. È possibile che l’Isis abbia cercato di distrarre l’attenzione dalla sconfitta e in parte c’è riuscito, usando proprio la tattica della dilazione.
Prima ha chiesto denaro, poi le 72 ore di ultimatum, seguite da altre 24. Così ha sempre mantenuto l’iniziativa nel duello con gli avversari mettendo in imbarazzo Tokyo e Amman.
Il Giappone ha ripetuto che con i terroristi non si tratta, però lo ha lasciato fare ai giordani. E per l’esecutivo del premier Abe è iniziata una fase delicata. Il Paese, pur non partecipando alla spedizione anti-Isis, è stato coinvolto comunque nel conflitto con la cattura dei due ostaggi, il reporter Kenji Goto e Haruna Yukawa, poi trucidato.
Ancora più intensa la sfida alla Giordania. Perché ha tirato dentro al possibile baratto Sajida al Rishawi, la terrorista detenuta nel regno e coinvolta in un grande massacro. Oltre a questo c’è il vincolo della donna alla formazione di Abu Musab al Zarkawi: ha partecipato all’attentato e suo fratello Thamer era un luogotenente dell’emiro nero.
Per i terroristi la Giordania è un nemico doppio. Da sempre i servizi di re Abdallah collaborano con gli Usa. Un’unità speciale, i Cavalieri della giustizia, ha condotto operazioni contro i jihadisti e molti di loro sono finiti nella prigione di al Jafr (ora chiusa) dove i metodi usati erano brutali.
Se uno dei centri usati dai servizi era chiamato «la fabbrica delle unghie» si può immaginarne il motivo.
Non meno sensibile la questione del pilota. Usandolo per il ricatto l’Isis ha seminato tensione ad Amman, dove la famiglia del militare, legata a un grande clan tribale, ha chiesto che la Giordania si ritiri dalla coalizione. Lato della storia sulla quale hanno pesato le notizie uscite nelle scorse settimane.
Il 26 dicembre i militanti hanno promosso un sondaggio per decidere quale metodo usare per uccidere il militare. E il 2 gennaio il quotidiano libanese al Mayedeen ne ha annunciato la morte, sembra per decapitazione. Quindi i sequestratori lo hanno ritirato fuori senza però dare la prova in vita richiesta dai mediatori. Atteggiamento che ha fatto sospettare un piano per mettere con le spalle al muro il sovrano.
Infine la comunicazione, meno fluida rispetto al passato. Solo un video ben curato – che ha suscitato molte speculazioni – poi messaggi audio o clip piuttosto rudimentali. Davvero strano per una partita così complicata.
Chi crede ai complotti avrà le sue spiegazioni, gli esperti suggeriscono che l’Isis non ha voluto prendere dei rischi. Troppe spie e droni in giro. E allora, per motivi di sicurezza, è ricorso a metodi meno sofisticati. Che comunque hanno funzionato.
Guido Olimpio