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 2015  gennaio 29 Giovedì calendario

La solidarietà per Erri De Luca, dalla campagna #iostoconerri ai cartelli in aula con la scritta «Je suis Errì». Lo scrittore è accusato di istigazione a delinquere per alcune dichiarazioni fatte in un paio di interviste sul tema della Tav. Una questione di liberà di espressione

Ormai è diventato un caso nazionale: lo scrittore Erri De Luca è sotto processo per istigazione a delinquere, e siccome l’istigazione l’avrebbe commessa con alcune dichiarazioni fatte in un paio di interviste sul tema della Tav, si discute se sotto processo non sia, in realtà, la libertà di espressione. Da settimane è partita una campagna di solidarietà: #iostoconerri.
Ieri a Torino c’è stata la prima udienza e una piccola folla di sostenitori di De Luca ha manifestato in difesa sua e, più in generale, del diritto di esprimersi.
Fuori dal palazzo di giustizia distribuivano gratis il libretto che Erri De Luca ha scritto su questa sua vicenda, «La parola contraria», libretto che soprattutto a Torino è ai primi posti nelle classifiche delle vendite. Dentro il palazzo, invece, molti alzavano cartelli «Je suis Errì», che il giudice ha cortesemente chiesto di abbassare perché un’aula di giustizia è pur sempre un’aula di giustizia; mentre lui, De Luca, teneva con i giornalisti un anticipo della sua arringa difensiva. Mani in tasca, gambe leggermente divaricate, quest’uomo il cui volto con il passare degli anni assomiglia sempre più a quello di Eduardo De Filippo (senza mai sorrisi, però) ha spiegato che non rinnega nulla di quello che ha detto, che è giusto sabotare un’opera sbagliata come la Tav, e che «sabotaggio» è un termine che può anche essere nobile, tanto da essere usato pure da Gandhi. Ha rovesciato le parti in causa: «Io qui sono imputato, ma fuori di qui a essere isolata è l’accusa. Quest’aula è sotto osservazione».
Ma che cosa aveva detto, in quelle interviste? Le frasi incriminate sono queste: «... la Tav va sabotata. Ecco perché le cesoie servivano: sono utili a tagliare le reti. (...) Hanno fallito i tavoli del governo, hanno fallito le mediazioni: il sabotaggio è l’unica alternativa...»; «... resto convinto che la Tav sia un’opera inutile e continuo a pensare che sia giusto sabotare quest’opera...».
Nel suo libro, De Luca ricorda il ruolo civile degli intellettuali e, dopo essersi paragonato a Orwell, Pasolini, Rushdie e Goethe – poi, più modestamente, a Reinhold Messner e a Mauro Corona – dice che sotto processo è «la libertà di parola contraria», e che la vera «vittima per ora è l’articolo 21 della Costituzione Italiana», il quale stabilisce che «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».
Ma davvero la querela a De Luca è una querela all’articolo 21? Ora, le frasi sotto accusa le avete lette, giudicate voi. Il nostro parere è semplice. Primo: denunciare De Luca è stato un errore. Intanto è un errore perché, come ha scritto ieri Cesare Martinetti, la denuncia servirà allo scrittore per fare l’eroe se viene assolto, e il martire se viene condannato. Ma un errore anche perché non è in un’aula di tribunale che si può discutere di interviste come quelle.
Detto questo, però, una cosa deve essere chiara. Sotto processo non c’è la libertà di espressione, ma frasi che giustificano o addirittura sollecitano atti violenti per contestare qualcosa che si ritiene sbagliato; e sono frasi pronunciate in momenti in cui in Valsusa c’erano incidenti, aggressioni, feriti, minacce. De Luca ha tutto il diritto di pensare che ribellarsi in modo violento sia giusto: l’ha detto in tante occasioni, nel corso della sua vita. Non ha il diritto, però, di ritenersi irresponsabile di quello che dice; di scindere quello che scrive da quello che accade, magari dicendo, come ha fatto nel suo libro, che «se dalla parola pubblica di uno scrittore seguono azioni, questo è un risultato ingovernabile e fuori dal suo controllo». Eh no. Di quello che si scrive, si risponde. Magari non in un aula di giustizia, ma si risponde.
L’espressione è libera. Però non è irresponsabile. Per nessuno, neanche per un intellettuale. Diceva uno scrittore francese, Paul Bourget, che «i nostri atti ci seguono». Anche le parole.