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 2015  gennaio 29 Giovedì calendario

L’assurda vicenda di Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica di Roma, e del giornalista David Parenzo, rimasti rinchiusi nel campo di concentramento di Auschwitz insieme alla troupe di Matrix dopo un collegamento tv. «Esperienza surreale, in quel campo morirono i miei nonni» commenta Pacifici

«Il buio, il filo spinato, il freddo e la stanchezza fisica ed emotiva della giornata. I piedi gelati per le tante ore passate a camminare sulla neve, con dei semplici mocassini. C’era tutto l’immaginario da grande schermo ad aumentare l’angoscia, non si poteva resistere un minuto di più». Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica di Roma, racconta con toni da film, l’«avventura surreale», di cui è rimasto vittima nel campo di concentramento di Auschwitz, insieme a David Parenzo e alla troupe di Matrix, nella giornata della Memoria.
In occasione delle celebrazioni per il settantesimo anniversario del giorno in cui fu aperto il cancello di Auschwitz a rivelare, per la prima volta al mondo, i suoi orrori, infatti, martedì i custodi del campo hanno deciso di chiuderlo. In anticipo e senza curarsi di chi era, ancora, al suo interno. E, dopo, «curandosene» perfino troppo. Impegnati in una diretta autorizzata e ritrovatisi imprigionati, gli «ospiti» una volta scoperti, sono stati scambiati per «intrusi» e come tali arrestati.
«Ero stanchissimo e avevo molto freddo – ricorda Pacifici – Avevo chiesto di concludere i collegamenti prima del previsto proprio perché non avevo più le forze. Non eravamo soli, c’erano troupe da tutto il mondo. L’ultima, inviata da una tv danese, era andata via quindici minuti prima». Alle 23, però, quando il gruppo italiano si è diretto all’uscita ha trovato tutto chiuso. Nessun custode in vista, nessun contatto per le emergenze, solo le ombre inquietanti del campo e delle sue memorie. E l’incredulità prima, seguita poi dall’ansia e da una sorta di «claustrofobia», nonostante lo spazio aperto, per i troppi fantasmi del luogo. Immediati i tentativi di fuga. Il primo, “tecnologico”. «Abbiamo visto che c’erano delle telecamere che si accendevano quando ci avvicinavamo ad alcuni punti, così abbiamo cominciato a sbracciarci sperando che chi controllava quei filmati ci vedesse, ma non è servito».
LA FINESTRA E L’ALLARME
Più concreto il secondo tentativo. «C’erano sei finestre, l’intelaiatura in legno era leggera, non c’erano grate. Ne ho toccata una e si è aperta da sola. È stata quella la nostra via d’uscita». Per il momento. La finestra, infatti, ha fatto scattare l’allarme, rianimando il campo fino a poco prima deserto. «Un custode è sceso inveendo in polacco, non si capiva nulla. Secondo me si era addormentato e non sapeva cosa stesse succedendo. Non sapevamo chi chiamare, nemmeno i poliziotti parlano inglese. Alla fine hanno svegliato una ricercatrice diciottenne, che ha fatto da interprete. Più il custode si ostinava a dire che ci eravamo introdotti illegalmente nel campo, più noi spiegavamo che in realtà era nostro diritto uscirne».
Parole, autorizzazioni firmate e perfino filmati, non hanno sortito effetto. Anzi. Dopo tanto dibattere, sul posto è arrivata la scientifica. «Hanno chiamato la polizia criminale – spiega Pacifici – Ci hanno accusato di effrazione. Poi sono venuti a fare i rilievi, transennando l’area intorno alla finestra e prendendo le impronte. Continuavo a dire: sono stato io, volevo uscire. Alla fine, abbiamo saputo che se il museo non ci avesse denunciato, saremmo potuti tornare a casa. Già. Il problema è che del museo non si riusciva a trovare nessuno».
MEGLIO LE MANETTE
Alle 2.30 del mattino, l’idea delle manette. «O mi fate uscire o mi arrestate, io non ci resto. Qui sono morti i miei nonni», ha detto Pacifici. E, detto fatto, tutto il gruppo è stato portato in Commissariato, dove tra ulteriori accertamenti e deposizioni dei cinque “intrusi”, si è arrivati alle 5 del mattino.
A scrivere il “lieto fine” della vicenda sono stati gli interventi del Consolato, dell’Ambasciata e anche dell’Unità di Crisi della Farnesina. Una storia da film. O forse no, troppo “assurda” perfino per essere trasformata in commedia.