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 2015  gennaio 29 Giovedì calendario

Amato, Mattarella, Prodi, Fassino: la rivincita della Prima Repubblica. Non c’è candidato al Quirinale che non provenga dalla politica pre-Tangentopoli e dai grandi partiti di allora

È una di quelle situazioni in cui viene voglia di ripensare a Francesco Cossiga. E precisamente a uno dei suoi slanci, quando per delle ragioni che solo a lui offrivano degli spunti, comunque nell’estate del 2005 se ne uscì: «Dal cuore mi prorompe un grido: viva la gloriosa Prima Repubblica e viva gli antichi e gloriosi partiti!».
L’ex presidente della Repubblica era obiettivamente strambo, da qualche anno si sentiva un po’ lo sciamano e un altro po’ la bocca della verità della vita pubblica italiana. Ma certo oggi avrebbe qualche buona ragione si sentirsi anche un po’ profeta. Non c’è infatti candidato alla massima carica istituzionale che non provenga dalla Prima Repubblica – gloriosa o meno che sia.
Certo è un fatto, o meglio è un semplice effetto dell’anagrafe. Se si cerca un politico, è facile trovarlo nei ranghi di quella lunga stagione. C’è lì una riserva quasi inesauribile di figure adatte, una specie di provvista permanente di competenze, spesso personaggi ormai lontani dalla politica attiva e in qualche caso, forse, addirittura al di sopra delle parti.
Ma non era un’Italia che doveva a tutti i costi rinnovarsi? Non c’era l’esigenza di procedere a uno svecchiamento, per non dire che era stata innalzata la bandiera della risolutiva rottamazione?
Anche questo esito, per quanto necessariamente provvisorio, conferma che bisogna sempre prendere con le pinze i proclami e ancora di più le mode. Sia Amato che Mattarella sono divenuti importanti alla metà degli anni 80, che sarebbe un trentennio fa. L’uno ha 76 anni, l’altro 73. Amato era il sottosegretario di Craxi a Palazzo Chigi, Mattarella, figlio di antica dinastia scudocrociata, era l’uomo che De Mita mise d’imperio alla guida della Dc siciliana, dove per via della mafia accadevano di continuo cose pericolose e anche tragiche (una fu l’assassinio del fratello di Sergio, presidente della regione).
Tutto si può dire dei due candidati meno che non abbiano una storia, una scuola, una notorietà e un sistema di riferimenti che non è scomparso insieme alla cortina di ferro che lungamente l’aveva protetto. Dopo che per un combinato di ragioni anche complesse saltò in aria o fu sprofondata la Repubblica dei partiti, comunque venne il tempo degli autodidatti: Bossi, i tecnici della Banca d’Italia, i giovani sindaci e soprattutto Berlusconi; insomma una nuova razza di leader, quasi del tutto estranei alle culture politiche del Novecento, che si sagomarono sul sistema dei media.
Di questa progenie Matteo Renzi, che al momento del crollo della Prima Repubblica si preparava alla licenza liceale, rappresenta oggi il prototipo più evoluto – anche se per ragioni di famiglia ha fatto in tempo a conoscere fatti e personaggi dell’Italia democristiana, e infatti a volte si diverte a chiamare i suoi collaboratori «Mariano» e «Arnaldo», come Rumor o Forlani.
Anche gli altri esponenti variamente «quirinabili» provengono tutti da quell’epoca. Il giovane Prodi fu ministro in un governo Andreotti; D’Alema presentò il saluto dei pionieri del Pci a Togliatti; Castagnetti è stato il segretario di don Pippo Dossetti; Fassino e Veltroni furono selezionati come promettenti quadri della Fgci ai tempi di Enrico Berlinguer.
Qualcosa evidentemente è rimasto delle antiche virtù. Lo scorrere degli anni ha tolto le incrostazioni mefitiche di quel ciclo ormai storico. I disastri complessivi della Seconda Repubblica, gli stranguglioni del centrosinistra, il fallimento del berlusconismo, la sensazione di una classe politica inconcludente, avida e buffona, hanno completato una mezza rivalutazione.
In questo senso Amato e Mattarella sono due «sopravvissuti», nella nozione che ne dà Elias Canetti in «Massa e potere», hanno visto e rischiato la fine, come tanti loro amici e compagni che sono caduti, ma sono restati in piedi. Non solo, il craxiano Amato s’è fatto tecnico per traghettare un residuo di governo da una stagione all’altra; allo stesso modo Mattarella ha delineato e dato il suo nome a sistema elettorale che dopo i referendum di Segni ha accompagnato il paese dalla legge proporzionale a quella maggioritaria (ma temperata).
Sul numero, sui periodi che le delimitano e sull’esistenza stessa delle Repubblica la storiografia ha qualche problema. Nel celebre discorso in cui Craxi chiamò tutti i partiti a riconoscere i finanziamenti occulti citò anche de Gaulle per dire che l’Italia era sempre «en l’heure de la Quadrième», cioè perennemente in mezzo al disfacimento della Quarta Repubblica francese.
Per convenzione si possono forse contare due Repubbliche e mezzo, là dove la metà è la presente. Ma di sicuro questa elezione presidenziale che si apre oggi chiude un’epoca aprendone un’altra. In genere sono cose che si capiscono dopo, ma tutto lascia immaginare che qualcosa sta per accadere. Certo il mare di schede bianche non aiuta a riconoscere il senso del cambiamento. Ma intanto la Prima Repubblica non è più famigerata. E se non è il suo riscatto, certo Cossiga con i suoi scatti e le sue manie ne sarebbe lieto e forse anche entusiasta – ma poi gli passava, e vedeva nero perché gli indovini sono fatti così.