Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2015
L’attacco all’hotel a Tripoli, quasi alle porte di casa nostra, non è purtroppo una sorpresa inaspettata nel caos libico ma è anche un’antologia che raccoglie quasi vent’anni di errori di valutazione dell’Occidente. Esauriti il cordoglio e l’emozione per gli attentati di Parigi, ora si fanno i conti e l’Italia non ne è fuori: la stessa tratta dei migranti che dalla Libia approdano in Italia è gestita da esponenti dell’Isis
Rivendicato dal Califfato di Derna, l’attacco sul lungomare di Tripoli, quasi alle porte di casa, non è purtroppo una sorpresa inaspettata nel caos libico ma è anche un’antologia che raccoglie quasi vent’anni di errori di valutazione dell’Occidente seguiti da altri non meno clamorosi dei precedenti. Ed è stato così, inseguendo uno sbaglio dopo l’altro, prendendo decisioni azzardate e sospette, che si sono create le condizioni per uno scontro allargato tra l’Occidente, i musulmani moderati e gli islamici più estremisti, lungo un arco di crisi che va dal Mediterraneo al Nordafrica, dal Medio Oriente all’Asia centrale.
Esauriti il cordoglio e l’emozione per gli attentati di Parigi, ora si fanno i conti e l’Italia non ne è fuori: la stessa tratta dei migranti che dalla Libia approdano in Italia è gestita da esponenti dell’Isis, aveva avvertito recentemente Alì Tarhouni, presidente dell’Assemblea costituente di Tripoli, secondo cui le milizie dello Stato Islamico giorno dopo giorno conquistano terreno.
Mentre a Kobane i curdi sono riusciti a liberarsi del Califfato, a Derna sono arrivati i luogotenenti di Abu Bakr Baghadi accompagnati dai reduci della guerra in Siria e in Iraq che avevamo già visto partire per le coste turche nel 2011. In Turchia sbarcarono allora cinquemila turbolenti volontari libici per partecipare alla guerra contro il regime di Bashar Assad. In quelle settimane Erdogan, Sarkozy e Cameron andavano a raccogliere l’applauso scrosciante dei thuwar, i rivoluzionari di Bengasi, mentre si preparavano le premesse per il disastro di oggi.
Sbagliato fu il bombardamento del colonnello Gheddafi deciso da francesi, americani e britannici (un intervento seguito poi anche dall’Italia), che portò alla sua caduta ma anche a una sanguinosa guerra civile; e soprattutto ancora più grave è stato abbandonare la Libia al suo destino in una transizione impossibile in un Paese spaccato tra Cirenaica e Tripolitania dove non solo non c’era nessuna tradizione democratica ma anche lo Stato, nozione per altro assai labile, era già affondato nella polvere insieme al Raìs. Fu quella una decisione presa dalle ex potenze coloniali (non dall’Italia che aveva un trattato con Gheddafi) per non restare fuori dalle primavere arabe con l’intenzione di indirizzarne l’evoluzione e farsi nuovi alleati e clienti: i risultati li abbiamo sotto gli occhi e c’è da augurarsi che i negoziati di Ginevra partoriscano qualche sviluppo altrimenti la Libia è perduta.
Anche questa volta tutto si tiene in una trama non così oscura come sembra. L’attacco sarebbe una vendetta per la morte in carcere negli Usa di Abu Anas Al Libi, uno degli organizzatori degli attentati alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania del 1998. Fu il primo attacco di al-Qaeda. Qualche mese prima su Foreign Affairs Bernard Lewis aveva scritto che Bin Laden e l’egiziano al-Zawahiri avevano lanciato una dichiarazione di guerra. Non gli venne dato troppo peso e Clinton fu costretto a reagire in fretta lanciando a casaccio qualche Cruise in Sudan e Afghanistan. Tre anni dopo ci sarebbe stato l’11 settembre ma Clinton era partito da Little Rock con un solo slogan, per quanto efficace, «It’s the economy stupid». Ma evidentemente c’era anche dell’altro al mondo, così come in Libia non esistevano solo da ghermire affari e petrolio.