la Repubblica, 27 gennaio 2015
Il paradosso di Charlie Hebdo. L’irriverenza si è trasformata in oggetto di adorazione, l’impertinenza in obbligo e persino in compito scolastico. «Io sono tra coloro che si sentono a disagio. In definitiva, la carica simbolica attuale è tutto ciò contro cui Charlie ha sempre lavorato: far crollare i tabù, smascherare i fantasmi. Con la differenza che oggi il simbolo siamo noi. Come si distrugge un simbolo che siamo noi stessi?». Parola di Luz
L’attentato contro Charlie Hebdo ha prodotto questo risultato paradossale: l’irriverenza si è trasformata in oggetto di adorazione, l’impertinenza in obbligo e persino in compito scolastico.
L’irriverenza si è trasformata in oggetto di adorazione, l’impertinenza in obbligo e persino in compito scolastico. Il disegno sacrilego è stato sacralizzato e la guerra santa barbarizzata. Informazione e insegnamento sono stati mobilitati, ironia e sarcasmo sono diventati una materia obbligatoria. L’intoccabile è emerso ovunque. I militanti della matita hanno preso ad assomigliare a dei pellegrini in cammino, con i loro bastoni: dei penitenti del ridere. La Republique, rispettosa, ha brandito l’ostensorio del ridere davanti alle folle in processione… Ma non è questo l’unico paradosso che l’attentato ha reso possibile. In nome della libertà d’espressione sono state autorizzate misure eccezionali, come il rafforzamento dei controlli di polizia e la sorveglianza su Internet. In nome della pace e della civiltà abbiamo assistito al moltiplicarsi di dichiarazioni bellicose. In nome dell’unità nazionale il nemico interiore è stato stigmatizzato e l’Islam radicale è stato denunciato.
L’elenco di queste ingiunzioni contraddittorie, avvolte nel manto del lutto, della riprovazione e dell’oltraggio collettivo è inesauribile. Una celebrazione più o meno fantasmatica dei valori che ci assomigliano, la necessità di unirsi nella difficoltà... La messa in scena di un “noi”, la dimostrazione della forza di un’unità ritrovata… Un’operazione che Les Echos non ha esitato ad arruolare in nome del “marchio Francia”… “Il marchio Francia, più forte di tutti gli eserciti del mondo”, titolava il quotidiano. Nelle pagine interne del quotidiano, uno specialista di marketing enumerava tutti gli elementi del re-branding francese. «Questa domenica, 11 gennaio 2015, Republique e democrazia hanno ripreso la parola invadendo con dignità le strade di Parigi… Difendere il “marchio” Francia per trovare il nostro posto nell’avvenire. Sì: l’esemplarità, l’irriverenza, le matite, l’intelligenza sono più efficaci e più educative di tutti gli eserciti del mondo!».
All’indomani dell’11 settembre 2001 la diplomazia americana aveva tentato un’operazione simile, spingendosi sino ad affi- dare degli incarichi diplomatici a specialisti del branding, incaricati di «vendere l’America al mondo come un marchio». Tre settimane dopo l’11 settembre del 2001 Charlotte Beers, che negli anni Novanta aveva diretto due delle maggiori agenzie pubblicitarie americane, la J. Walter Thompson e Ogilvy & Mather, veniva nominata sottosegretario di Stato per la diplomazia. Era la prima volta che un professionista del marketing veniva scelto per un incarico di responsabilità diplomatica e non come semplice consulente di comunicazione. Durante un’intervista Diane Sawyer, giornalista di Good Morning America, presentò Beers come la «donna il cui lavoro consiste nel dire al mondo cos’è l’America, e farlo comprendere ai musulmani».
È ciò che il marketing definisce rebranding : un’operazione che mira a dare nuova vita a un marchio invecchiato, riavvicinandolo alla sua narrazione originaria. «Il compito dell’esperto di marketing oggi consiste nel ricompattare le persone. Non è questione di visibilità, ma dell’impegno», afferma Larry Weber, consulente di marketing specializzato nei nuovi media. Per riuscirvi occorre che il marchio ritrovi un’identità forte e condensi in una narrativa coerente tutti gli elementi costituitivi dell’impresa: la sua storia, la natura dei beni che produce, la qualità del servizio che offre ai clienti, i rapporti di lavoro, il rapporto con l’ambiente… Un’operazione di rebranding in tre fasi: la sinistra e i suoi problemi di governance, la Francia e i suoi problemi di integrazione, l’attrattività della Francia nel mondo e i suoi problemi di esportazione… Il guru del marketing Seth Godin ritiene che nella costruzione di un marchio il ricorso agli ossimori rappresenti un elemento chiave. «Le parole o le immagini di cui vi servite per raccontare delle storie sono strumenti potenti. Quando entrano in conflitto tra loro formano un ossimoro. Su questa figura retorica si basano innumerevoli racconti efficaci. L’ossimoro permette di raggiungere gruppi di consumatori spesso trascurati: gli stessi, sempre più numerosi, che cercano di conciliare desideri tra loro contraddittori. Gli ossimori destabilizzano i riflessi d’incredulità o di scetticismo e producono un effetto di sorpresa tale da incuriosire, sedurre, essere accattivanti».
La performance anti-terroristica consiste in effetti nel riscrivere la narrativa nazionale fondendo insieme visioni del mondo contraddittorie, ideali che si escludono a vicenda, aspettative inconciliabili… sinistra e destra, pacifi- smo e militarismo, legge e trasgressione, ordine e anarchia; il pansessualismo vitalista di un Wolinski aperto a tutte le trasgressioni e l’onanismo depressivo di un Houellebecq; l’anticlericalismo di Charlie Hebdo e l’ordine morale della Manif pour tous...
L’11 gennaio ha compiuto una fusione fredda. Ha assorbito come una spugna le disparità culturali, ha cancellato le ineguaglianze… È stata sottolineata l’assenza, alla manifestazione, dei giovani delle periferie: una Francia invisibile che non si riconosce nella narrativa nazionale che viene riscritta. La manif ha occultato come per miracolo questo «apartheid territoriale, sociale, etnico» che secondo le parole di Manuel Valls regna in Francia. Il consenso nazionale ha avuto il sopravvento sul dissenso repubblicano. «Per quanto ciò possa apparire blasfemo», ha scritto Ashraf Ramzy, esperto dell’identità dei marchi, «in un’economia di mercato i consumatori obbediscono alla stessa logica che presiede alla comunione dei santi nella chiesa cattolica: consumando i simboli dell’America diventiamo un corpo solo con il mito più potente di tutti i tempi: il sogno americano».
Così la messa anti-terroristica si presta ad essere letta come un’Eucaristia patriottica. Consuma i simboli della fede repubblicana e opera una vera e propria transustanziazione: “Questo è il mio corpo” “Io sono Charlie”. Il corpo di Charlie. Il marketing non fa che parafrasare il testo del Testamento, o profanarlo. Tom Peters, autore nel 1997 di un celebre articolo intitolato “The Brand Called You” (“Il marchio chiamato te”) affermava che «siamo chiamati a diventare consumatori di noi stessi». È la grande cerimonia cannibalica di una società che si consola consumandosi: bandiere a mezz’asta, ex-voto, commemorazioni, deplorazioni, levate di matite… come se per ricompattare delle società divise e invecchiate non restasse altro che il terrore. Alla manif per Charlie si respirava un’aria da funerale. Si seppelliva un’epoca. Lo spirito del Maggio del ‘68, o il suo spettro che continuava ad aleggiare tra la folla.
È così che lo spirito dell’11 gennaio ha preso il posto dello spirito del Maggio. Le matite hanno preso il posto dei sanpietrini (quelli lanciati nelle manifestazioni del 1968, ndr), e la strada si è svuotata per accogliere un manipolo di capi di Stato, che comprendeva una ragionevole percentuale di censori e dittatori. Si è assistito al tempo stesso alla rivolta e al ritorno del bastone, a “Io sono Charlie” e al caos, al Maggio ‘68 e al giugno ‘68 (quando De Gaulle vinse le elezioni, ndr). Lo spirito di rivolta si è affidato all’ordine repubblicano, una rivolta antiautoritaria ha assunto i tratti di una richiesta di autorità, l’insorto è diventato un venditore. L’hashtag virale si è imposto su migliaia di slogan. Vi sono stati contemporaneamente rivoluzione e restaurazione, ordine e insurrezione; conservazione dell’ordine in autogestione.
Una marea umana paralizzata dalla sua stessa densità non riusciva a muoversi. Forse esitava tra “Republique” e “Nation” (cioè tra le due piazze del percorso, ndr), forse era incerta sul senso della sua marcia? La folla ha abbracciato i poliziotti e cantato la Marsigliese, alcuni giovani si sono aggrappati alle statue, delle famiglie piangevano le vittime. L’immagine di Patrick Pelloux in lacrime tra le braccia di François Hollande si è sovrapposta a quella del giovane Cohn-Bendit, che nel 1968 aveva sfidato beffardo la polizia antisommossa. L’hashtag #jesuischarlie ha cancellato lo slogan: «Siamo tutti ebrei tedeschi». La storia si ripeteva, ma non come tragedia o farsa, bensì sotto forma di uno spettro: quello del Maggio del ‘68 di cui Charlie Hebdo ha prolungato, al di là di ogni ragionevolezza, la difesa e la rappresentazione.
Il maggio del ‘68 non era forse diventato il capro espiatorio delle crisi che minavano la Nazione? Identità sfortunata, autorità beffeggiata, famiglia sgretolata, valore- lavoro svalutato, zone di vuoto giuridico, insicurezza culturale, scuola screditata. L’abecedario delle nostre paure nazionali. Porre fine allo spirito del maggio 1968 era il sogno di Sarkozy, ma è toccato a Hollande presiedere a questo evento. Lo ha fatto con tutta la commiserazione necessaria e non senza una punta di abnegazione, dovendo lui stesso, eterno ottimista, piegare il capo di fronte alla tragicità della situazione. Come se per porre fine alla Quinta Repubblica occorresse innanzitutto sbarazzarsi del suo rivale più antico. L’11 gennaio sono stati celebrati i funerali nazionali del maggio del ‘68 e, poiché non vi sono limiti alla compassione di sé, si è nazionalizzato Charlie Hebdo. È tutto perdonato?
L’articolo è stato scritto per Mediapart e per Repubblica in una versione ridotta ( Traduzione di Marzia Porta)