Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  gennaio 26 Lunedì calendario

Da Curi a Vendemini, gli eroi dello sport caduti sul campo. Troppo presto

Luciano Vendemini era un marcantonio alto 2 metri e 12, pesava in piena forma 107 chili. Divenne il pivot della nazionale azzurra di basket, fu il trascinatore della qualificazione ai Giochi di Montreal del 1976 dove l’Italia si piazzò onorevolmente quinta. Oggi Luciano avrebbe sessantadue anni e mezzo. Ne visse meno di venticinque. Perché lo acchiappò la Morte Improvvisa da Sport: uno sgambetto del destino che i medici abbreviano con la sigla MIS, il male oscuro dell’agonismo. E della prevenzione. Accadde purtroppo il pomeriggio del 20 febbraio 1977. Dopo aver terminato la fase di riscaldamento della partita di basket tra la sua Jolly Colombani Forlì e la Chinamartini Torino, Vende-mini va a sedersi in panchina, in attesa che inizi l’incontro. Quando lo chiamano perché ritorni in campo, lui resta lì, immobile come una statua. Compagni e allenatore si accorgono subito che non respira. Lo ha ucciso una malformazione cardiaca congenita. Gli è scoppiato un aneurisma. Si scatena un diluvio di polemiche. Come mai le visite mediche non avevano evidenziato alcuna anomalia patologica?
   Otto mesi dopo tocca a Renato Curi, 24 anni, baffuto centrocampista del Perugia. È il 30 ottobre. Gli umbri allenati da Ilario Castagner, sfidano la Juventus allo stadio di Pian Di Massiano. Siamo alla quinta giornata del campionato e il Perugia è primo con Juve e Milan. È una squadra dove tutti corrono e si dannano, si parla di calcio “totale”, di riscossa delle “provinciali”. Piove e il campo è pesante, una fatica in più: Curi, il regista del Perugia, è uno dei migliori. Poco dopo il trentesimo minuto del primo tempo, Causio entra duro su Curi che esce dal campo, per rientrare dopo qualche minuto. Zoppica leggermente, nessuno ci fa caso più di tanto.
   NELLA RIPRESA, è di nuovo in campo. Diluvia. Al quinto minuto la Juve sfrutta un calcio di punizione. Lo batte Furino. Nello stesso momento, Curi si accascia. I primi ad accorrere sono gli juventini Bettega e Morini, poi anche Benetti e Scirea. Capiscono che l’avversario è grave. Chiamano disperatamente l’arbitro, gridano verso la panchina del Perugia. Curi è paonazzo, boccheggia. Accorre il massaggiatore Renzo Luchin, il professor Tomassini, Castagner. Il cuore di Renato non batte più. L’ambulanza corre disperata al Policlinico. In ospedale ogni tentativo si rivela inutile. Alle 16 e 30 è ufficialmente morto.
   Curi ci scherzava, sul suo “cuore matto” (come quello del ciclista Franco Bitossi). Perché i medici sportivi non avevano ritenuto opportuno di farlo smettere? Per di più, era reduce da un infortunio alla caviglia, su quel terreno, un inferno che si sommava all’inferno: il medico del Perugia aveva rassicurato i dubbiosi: “Il giocatore è guarito, semmai gli unici dubbi sono sulla sua attuale tenuta atletica”. Il primo novembre, la Gazzetta dello Sport denuncia: “Curi non è stato fermato in tempo”. Il professor Severi che ha condotto l’autopsia, conferma: “È stata trovata una malattia del cuore capace di dare morte improvvisa”. Nel Perugia gioca in porta Lamberto Boranga. È pure medico. Ipotizza: forse Renato sapeva a quali rischi poteva andare incontro, però voleva giocare. In mancanza di una legge, vige quella del Far West.
   Sono due storie maledettamente esemplari, dietro alle quali se ne celano migliaia meno conosciute. Perché non colpiscono campioni, perché sono piccoli drammi che si consumano nelle periferie dello sport. Ma è un fenomeno diffuso, micidiale. Non c’è un registro italiano ufficiale, come se lo sport “ufficiale” avesse paura di contare la salute dei propri protagonisti.
   Finalmente, nel 1982, viene approvata una legge che obbliga chi vuole far sport agonistico a un esame preventivo per stabilirne l’idoneità fisica. La chiamano legge Vendemini: “Fu un significativo passo in avanti – ricorda il professore Antonio Spataro, direttore dell’Istituto della Medicina dello Sport del Coni – a oggi non c’è uno standard universalmente accettato per lo screening degli atleti, diciamo che i criteri italiani, adottati da altri 13 Paesi europei, sono considerati i più efficaci, al contrario di quelli in vigore negli Stati Uniti, nei Paesi anglosassoni, in Russia e in altri stati dove l’atleta può firmare un’autocertificazione. Tanto per capirci, negli Usa c’è un decesso ogni tre giorni”.
   “Ogni federazione ha individuato l’età in cui può iniziare l’agonismo – spiega il professore Spataro – una ricerca condotta durante ventisei anni, ha dimostrato che la visita preventiva ha ridotto del 90 per cento l’incidenza delle patologie mortali di MIS”. L’esame obbligatorio prevede l’elettrocardiogramma a riposo e sotto sforzo, la prova dello spirometro, l’esame delle urine e una visita medica generale: così, si riescono a individuare il 90 per cento delle patologie a rischio morte improvvisa, come la cardiomiopatia ipertrofica che venne diagnosticata al nuotatore Domenico Fioravanti, due medaglie d’oro ai Giochi di Sydney. I medici del Coni lo bloccarono mentre si stava allenando per Atene 2004. La seconda causa più frequente, al di sotto dei 35 anni, è la displasia aritmica del ventricolo destro, “questa prevenzione paga dal punto di vista dei risultati”. Eppure...
   Eppure resta un bel dieci per cento. “Già, parliamo della anomalia congenita delle coronarie, la terza causa di morte improvvisa tra i giovani. L’ecocardiogramma può identificarla. Non è di routine. Per via dei costi. Nel calcio, lo fanno i professionisti. In un nostro studio su 2-3mila ragazzi sui quali è stato eseguito l’ecocardiogramma, abbiamo potuto abbassare il livello di rischio al 2 per cento”. Altro dato che fa riflettere: in Italia, il 5 per cento delle morti improvvise da sport si verificano durante le attività ricreative scolastiche. In generale, il 90 per cento di chi è colpito da MIS è maschio e il 75 per cento ha meno di 35 anni. Legge Vendemini e visite d’idoneità sono un baluardo, non la barriera perfetta. Talvolta, le vie del destino sono incrociate, e pure beffarde. Il cestista Luca Bandini di 22 anni, morì l’8 febbraio del 1992, sullo stesso campo dove perse la vita Vendemini. Soffriva di un’apoplasia dell’aorta.
   NEL 1995, grazie ad un decreto ministeriale fu introdotta la figura del medico sociale, responsabile cioè dei controlli medici sugli atleti che richiede un diploma di specializzazione in Medicina dello Sport e l’iscrizione a un elenco apposito presso la federazione sportiva di appartenenza. Che non sono tutte. Peggio, il presidente di una società può autocertificare che un suo atleta è idoneo all’attività professionista. Certo, in caso di disgrazia, lui e il medico sociale dovrebbero rispondere in sede legale. Non tutti sono scrupolosi, troppo spesso il medico sportivo si trova a dover definire la soglia di tolleranza della patologia sotto le sollecitazioni della società e non tutti, o meglio, pochissimi si possono permettere di rinunciare a un loro atleta. L’Inter lo fece con Kanu, per un vizio cardiaco. L’aveva Lionello Manfredonia, gran centrocampista di Lazio e Roma. Durante la partita Bologna-Roma del 30 dicembre 1989, si accasciò per arresto cardiaco. Dissero che fu la somma del gran freddo (si giocò a meno 5) e dello sforzo. Lo salvò l’immediato intervento dell’ex compagno Bruno Giordano, che giocava per i felsinei, e un defibrillatore. Lionello si riprese, ma saggiamente smise di giocare. Aveva 33 anni. Oggi ne ha 58. Li ha e se li tiene ben stretti. Il MIS lo ha quasi ammazzato. Ha vinto l’ultimo dribbling, Lionello. Quello con la morte. Non avrebbe mai voluto farlo. Non avrebbero mai dovuto farglielo fare.
   L.Co.