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 2015  gennaio 26 Lunedì calendario

L’Italia della satira seppellita dal potere. Storia di matite che non hanno mai avuto vita facile da Tango al Vernacoliere, passando per gli anni in cui la Rai censurava Dario Fo e Franca Rame per aver detto che la mafia esisteva. «È una cosa che nasce dalla pancia e il nemico deve essere di pancia. Altrimenti è una battuta, non di più». Parlano Gino e Michele

Se esiste un limite, forse, è quello di non considerarla una cosa molto seria. Nel senso che dovrebbe essere maneggiata con cura, venduta quando esiste il bisogno, e solo da coloro che la possono fare. Perché la satira, nella sua millenaria origine, resta quello che suggerisce l’intelligenza. Devi entrare in punta di piedi, saperti ridere addosso prima che sugli altri, usarla come una spada. E dopo, per dirla alla Enzo Jannacci, “l’importante è esagerare”. Il dibattito, poi, è ancora più che millenario: è morta la satira? Ai tempi della presidenza di Geroge W. Bush la risposta più fulminante, vera, semplice, l’ha data un artista, Robin Williams, che di quell’oggetto ne aveva fatto un mestiere: “La satira è viva, sta bene, e abita alla Casa Bianca”. Stop, ogni altro eccesso sarebbe stato inutile. Magari a volte invece che vivere sopravvive. O vivacchia. Ma solo per assenza di talento. Quando diventa necessaria torna, fa capolino, riscopre il bersaglio e lo fa fuori senza lasciare tracce di sangue. Un’arma potente, che tutti i potenti vorrebbero abbattere, senza riuscirci mai. O solo in qualche caso. Uno di questi lo trovate dalle parti di Sant’Arcangelo di Romagna, si chiama Daniele Luttazzi. Talentuoso, colto, sensibile. Troppo per non essere eliminato. E così fu: scomparso dai canali Rai. Non sono mai piaciuti alle reti di Stato neanche Dario Fo e Franca Rame, gli irresistibili Nobel. Colpa di una Canzonissima che viale Mazzini, allora nei corridoi frequentata da intellettuali molto seri, non gradì. Erano gli anni Sessanta e i due (attori, satirici, intellettuali, scrittori, e molto altro ancora) presentarono uno sketch sulla mafia, raccontando al pubblico che non solo esisteva, ma uccideva pure. Apriti cielo. Per il senatore Giovanni Malagodi “si insulta l’onore del popolo siciliano sostenendo l’esistenza di un’organizzazione criminale chiamata mafia”. Il risultato fu la censura, che si concluse solo nel 1977 con Mistero Buffo.
   Il faccia a faccia col potere
   Il braccio di ferro con il potere, con l’establishment, non andò meglio nemmeno per alcune delle riviste satiriche italiane più celebri, che per qualche decennio riuscirono ad agitare l’opinione pubblica sfornando, al contempo, i volti forti dell’irriverenza nostrana. L’Asino fu fondato nel 1892 a Roma da Goliardo e Ratalanga, all’anagrafe Guido Podrecca e Gabriele Galantara, ai tempi del primo ministero Giolitti e della costituzione del Partito Socialista Italiano. Riuscì a sopravvivere, e con ottimi risultati, fino al 1925: poi per la sua connotazione antifascista venne costretto a cessare le pubblicazioni. Galantara, una volta scarcerato, andò a collaborare con il Becco Giallo, un giornale di successo, il più importante tra gli anni Venti e Trenta. E infatti il regime fascista lo fece chiudere ed emigrare in Francia. Alcuni dei suoi autori, come appunto Galantara, passarono quindi al Marc’Aurelio, che vide la luce 1931 e attirò tra le più illustri firme del tempo: Furio Scarpelli, Agenore Incrocci, Castellano e Pipolo, Ettore Scola, e pure un giovane Federico Fellini. Concluse la sua avventura nel 1958, ma ancora l’aria era buona per chi aveva voglia di dare alla luce prodotti editoriali di tipo satirico.
   Nel 1977, infatti, arrivò Il Male, una delle più importanti riviste dissacranti italiane, che riscosse un successo tale da generare l’onda di marea su cui nacquero diversi progetti editoriali che ne imitavano il modello, seppure tutti poi ebbero vita piuttosto breve: Lira di Dio, Il Peccato, La Peste, La Pecora Nera. Solo per citarne qualcuno. Nel 1989, poi, come inserto de L’Unità, uscì in edicola Cuore, fondato sulle ceneri di Tango da Michele Serra, Andrea Aloi e Piergiorgio Paterlini, che regalò all’Italia quelle famose copertine che ancora oggi sono pietre miliari della satira italiana: “Scatta l’ora legale, panico tra i socialisti”, “Salvo Lima come John Lennon, ucciso da un fan impazzito”, “Aiuta lo Stato: uccidi un pensionato”.
   Anni fertili, che oggi però faticano a riprodursi. Per questo, racconta Andrea Aloi, che accompagnò Cuore fino alla sua chiusura, il 2 novembre 1996, “oggi la satira italiana, più che morta, è frammentata. Parcellizzata”. “Ci sono ancora vignette belle e autori bravi, ma la satira d’impatto, quella legata alle iniziative editoriali che di questo genere culturale facevano il loro punto focale, non esiste più. E senza una rivista di questo tipo, esclusivamente satirica, con vignette a 360 gradi e articoli capaci di prendere in giro i luoghi comuni, quella potenza di fuoco è venuta meno”. A voler spiegare cosa manca all’Italia per riesumare una vera cultura della satira bisogna partire dal lato pratico. Che però non significa copie vendute, ma pressioni da parte del potere. “Oggi la società di questo paese è avvocatizzata, basta una mezza parola e scatta la denuncia. Immaginiamo quali difficoltà incontrerebbe una rivista simile se dovesse esistere: sarebbe sommersa da querele preventive, come ai tempi di Cuore non succedeva”. È anche una questione di linguaggio, è anche la ragione per cui non siamo tutti Charlie Hebdo. “La satira è un metalinguaggio che parla a chi conosce l’attualità giornalistica, con l’ambizione, al contempo, di scardinare il linguaggio giornalistico che conosciamo ponendolo di fronte a interrogativi ultimi”.
   Troppo spesso, recentemente, l’Italia ha preso a confonderla con la comicità, ma tra i due generi c’è un divario ben preciso: “La comicità deve far ridere, la satira no. Può essere scabrosa, acida, urticante, è una forma espressiva complessiva che racchiude in sé anche l’indignazione. È portare ai limiti l’espressività umana al fine della critica e dell’indignazione sociale. È il corrispettivo delle inchieste che fa la trasmissione Report di Milena Gabanelli, e infatti prende delle bastonate anche se dice la verità”. Vent’anni di governo Berlusconi, comunque, non hanno aiutato la satira italiana a sopravvivere. “Il Berlusconi regnante ha avuto una gestione della lotta politica molto putiniana, e questo aspetto non va sottovalutato. Per anni la gente ha vissuto in un clima minaccioso, che ha contribuito a scoraggiare eventuali iniziative editoriali”. Come non va sottovalutata la mancanza di ricambio generazionale: “In Italia conosciamo autori come Vauro o Vincino, ma siamo tutti in età pensionabile. Pensiamo a Wolinski, che era sì di una certa età, ma affiancato da autori più giovani. Cuore aveva l’abitudine di fare da talent scout per i nuovi talenti, Luca Bottura, Alessandro Robecchi”.
   Oggi, però, quell’incubatrice manca. E per questo manca anche l’antidoto alla malattia che affligge la satira italiana, costringendola quasi al silenzio: “Serve una nuova casa per gli autori satirici, un nuovo giornale, insomma, che pur con tutte le difficoltà che incontrerebbe possa fungere da punto di riferimento”, spiega Vincino, che a un progetto simile sta già lavorando. Attorno a lui tante penne giovani, che in mancanza di un supporto cartaceo usano il web per comunicare il loro messaggio. “La carta stampata è la forza della satira, infatti in Francia hanno cercato di ammazzare il giornale Charlie Hebdo, non i singoli autori, anche se poi hanno ucciso le firme ma non la rivista. Io credo che in Italia sia ancora possibile, deve essere possibile, perché altrimenti la satira trova spazio solo sui quotidiani, che però in questo paese sono fatti male, hanno le loro logiche e spesso le vignette non le capiscono finchè non sono già state pubblicate da altri”. La partita è di quelle difficili, e forse affinchè la satira si risvegli in un paese che per anni l’ha apprezzata con tanto entusiasmo, serve ancora tempo. “All’estero funziona”, dice ancora Aloi, “ma il Belpaese ha perso quella libertà anarchica, quel gusto adolescente per la provocazione. Spesso poi la realtà supera di gran lunga la fantasia. Ciò che si prendeva in giro ai tempi d’oro della satira, ad esempio l’Italia ladra di Mani Pulite, è andato così oltre che è diventato sempre più difficile satireggiare su cose così terribilmente drammatiche. Se sommiamo tutti questi fattori, è facile capire la ragione per cui il genere ha avuto una data di scadenza. Come lo yogurt”.
   Fenomenale quel Vernacoliere
   C’è invece una mosca bianca, anche nel mondo della satira. Si chiama Vernacoliere, un giornale stampato a Livorno e che è il più longevo e indipendente: Mario Cardinali, un piccolo grande uomo, età da pensione, ma senza pensarci minimamente, ha creato la sua fortuna attraverso le guerre di campanilismo toscane. Ma il suo linguaggio, puro, vociante, irriverente, lo ha trasformato in un fenomeno che gli permette di sopravvivere chiedere a nessuno quattrini. Un piccolo esempio: Cardinali avrebbe avuto il diritto al finanziamento pubblico per i giornali. Anche negli anni durante i quali la presidente del consiglio dei ministri distribuiva soldi a destra e a manca. Lui non li ha mai voluti quei soldi. Ha stampato il giornale, pagato i collaboratori, attraversato momenti di crisi. Ma il Vernacioliere è ancora lì a giocarsela. Un giorno combatte la sua battaglia contro i pisani, spesso se la prende con Renzi, ogni tanto il papa, Bossi, Berlusconi, Salvini. E non sono mai parole tenere. Nella migliore delle ipotesi li ha mandati tutti a fare in culo.

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L’intervista a Gino e Michele
Ci vuole testa. E passione. Qualità che loro hanno, hanno sempre avuto, da ragazzini, quando coi pantaloni corti (spesso anche per necessità calcistiche e non solo anagrafiche) frequentavano gli studi di Radio Popolare. Allora, siamo negli anni Settanta, guai in certi ambienti presentarsi con nome e cognome. È così che Luigi Vignali e Michele Mozzati diventano Gino e Michele. E probabilmente se si fossero chiamati Cosimo e Fernando avrebbero fatto altro nella vita: Michele avrebbe continuato a insegnare filosofia, Gino, che poi si chiamava Luigi, fresco di laurea alla Bocconi, massimo dei voti, avrebbe finito per fare l’amministratore delegato di chissà quale colosso. Per fortuna – loro e nostra – hanno scelto di lavorare nel mondo della satira, prima, e della comicità, dopo. Sono Gino e Michele, può bastare. Li intervistiamo insieme, e le risposte si alternano, ma è difficile trovare un passaggio dove ci siano divergenze. Lavorare per 40 anni insieme è molto più che un matrimonio, è più di una scelta o di quella cosa che semplifichiamo in sintonia.
   La domanda è quella dalla quale siamo partiti per questa inchiesta: la satira gode ancora di buona salute?
   Mah, forse non siamo neanche le persone adatte a rispondere a una domanda così banale e complessa allo stesso tempo, ormai non facciamo satira da diversi anni. Partiamo da un altro punto.
   Quale?
   Interrogarsi sul ruolo dei satirici. Un ruolo che troppo spesso è ingigantito e frainteso, prende un senso di marcia sbagliato.
   Contromano?
   No. Il punto è che non è vero che si fa satira per convincere la società a cambiare idea. È solo un modo per rinforzare le idee di chi la satira la fa. Il ruolo dei Dario Fo o degli stessi Gino e Michele, buoni personal trainer per il loro pubblico, quello che li ascoltava o li leggeva.
   Ci avevate detto che una risata li avrebbe seppelliti.
   Il problema è proprio quello. La satira non ha seppellito nessun potere, non ci è mai riuscita . Al limite, come ci dice quello che è accaduto a Parigi, è stata la penna di chi produceva risate a essere sepolta.
   Dunque la satira è complice di chi l’ascolta?
   In un certo senso. Meglio dire che la risata quando attacca il potere cerca adesioni e le pesca in quel bacino ideologicamente sicuro, quelli che la pensano allo stesso modo.
   È necessario per il satirico avere un bersaglio?
   Fondamentale. E questi anni qui, gli anni del disfacimento ideologico, hanno azzerato i nemici.
   Colpa anche del Nazareno?
   Un tempo esistevano almeno tre schieramenti ideologici di vita e della politica. Chi faceva satira sapeva chi erano i suoi avversari e su quello amava giocare.
   Oggi che l’ideologia è morta, sono scomparsi anche gli schieramenti.
   Oggi è un sistema di potere, o forse di non potere, che non ha più blocchi. Si è tutto parcellizzato al punto che diventa difficile, quasi impossibile, riuscire a fare della satira. È una cosa che nasce dalla pancia e il nemico deve essere di pancia. Devi dare un pugno molto forte perché uno schiaffetto non fa più satira. Altrimenti è una battuta, non di più. Nemici e pugni, gli ingredienti.
   Voi siete di sinistra, vi è andata meglio quando Berlusconi aveva ancora voce in capitolo?
   Esattamente il punto dove volevamo arrivare. I nostri peggiori lavori, i nostri libri che salviamo, ma solo perché sono nostri, sono quelli contro la sinistra. Perché noi è in quell’ambiente ideologico che muoviamo i primi passi, siamo persone di sinistra. E all’amico dai uno schiaffetto, il nemico cerchi di mandarlo giù al tappeto.
   La destra vi ha dato da lavorare.
   Le cose migliori che ci sono uscite hanno sempre preso di mira il craxismo, la Lega e Berlusconi. Non ci sono dubbi.
   È in quel momento, con la caduta del berlusconismo, che forse la satira scende di livello.
   Inevitabilmente. E a quel punto devi spostarti su un altro campo, quello della satira di costume o sociale. Non puoi più giocare con il politico in questi anni di schieramenti corretti e di larghe intese. Devi abbracciare altri campi della comicità. E soprattutto, se fatta bene, la satira sociale non ha tempo, non muore mai.
   La battuta politica ha vita breve?
   Sì. Tra cinquant’anni nessuno saprà più chi è Beppe Grillo o Matteo Renzi o quell’altro, Salvini o come si chiama. La comicità sociale è molto più difficile, ma se l’azzecchi resiste alle guerre e ai secoli.
   Un esempio di satira dimenticata?
   Uno, molto chiaro. Il Male, in pieno sequestro Moro, esce con una copertina, cattiva, cattivissima, cinica, al punto dell’inumano. C’è una fotografia di Moro e il titolo: “Scusate, ma di solito vesto Marzotto”. Dirompente, coraggiosa. Come deve essere la satira. Ma oggi nessuno la ricorda. Un ragazzo non sa neanche chi fosse Aldo Moro e in pochi possono ricordare lo slogan che girava sui cartelloni pubblicitari di Marzotto. Moro, quando uscì il giornale, stava per morire, lo sapevamo. E in quel momento la copertina fu devastante.
   E allora cos’è che resiste?
   Parlare della spesa, delle domeniche in famiglia al supermercato. Quello è un monologo che i comici fanno tutti. Ma non sempre, forse quasi mai, riesce. Ma se funziona non passerà mai.
   Viene in mente “La Vita Agra” di Luciano Bianciardi, forse uno dei più grandi romanzi del Novecento italiano.
   Era lì che volevamo arrivare, il più grande esempio di letteratura che si impasta con la satira immortale. Quando Bianciardi sale sul tram e descrive i milanesi che vanno a lavorare lo fa con lo stesso modo e con la stessa intelligenza che potrebbe uscire oggi dalla penna del miglior letterato. Parla delle segretarie e le descrive come le persone più potenti della più importante tra le imprese. Lavoratori e lavoratrici apparentemente anonime, ma di grande potere. Lui, più o meno, diceva che sono loro a inumidire con la lingua il francobollo. E se non lo facevano la lettera non sarebbe mai partita. Oggi possiamo parlare di posta elettronica, ma il motivo è sempre quello, la catena di montaggio ha come terminale le segretarie che decidono il messaggio che deve partire. E quello che può morire dimenticato. Giocando sul destino del resto dell’essere umanoide.