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 2015  gennaio 26 Lunedì calendario

Ecco perché a 42 anni arriva la crisi di mezza età. Soldi e vecchiaia non c’entrano nulla il problema sta nella perdita del lavoro ma soprattutto nel crollo delle aspettative

È LA selva oscura che ci accoglie nel mezzo del cammin di nostra vita: la cosiddetta “crisi di mezza età”. Per psicologi ed economisti esiste davvero e merita di essere studiata. Non per scagionare il marito fedifrago e spendaccione, ma per spiegare come, perché, e con quali conseguenze, in quella selva oscura si perdano in tanti, per uscirne qualche anno dopo finalmente rassegnati a invecchiare.I numeri li hanno pubblicati Terence C. Cheng, Nattavudh Powdthavee e Andrew J. Oswald, dell’Università di Melbourne, della London School of Economics, dell’Università di Walwick e dell’Istituto per lo studio del lavoro (Iza) di Bonn, pregiandosi di aver dato «la prima dimostrazione su molte nazioni dell’esistenza di ragioni scientifiche per credere al nadir umano o crisi di mezza età». Si tratta dell’analisi di decine di migliaia di questionari sul benessere raccolti tra persone tra i venti e i settanta anni in Inghilterra, Australia e Germania. I risultati confermerebbero quello che viene descritto da anni: nel tempo, la nostra felicità ha un andamento a forma di U. Cioè: si può essere molto felici nell’infanzia e nella vecchiaia, quasi felici nella prima età adulta e all’inizio della terza età, ma si è destinati a una certa sofferenza nella vita di mezzo.La crisi di mezza età è il punto più basso della U e per Cheng, Powdthavee e Oswald si posizionerebbe tra i quaranta e i quarantadue anni. Non lontano da quanto osservato nel 2010 da David Blanchflower del Dartmouth College, che (sempre attraverso questionari) aveva descritto una variabilità tra i trentacinque anni degli svizzeri e i sessantadue degli ucraini, con una media sui quarantasei.L’età esatta non cambia la ragione delle cose: si tratta di dati raccolti con questionari, inevitabilmente un po’ aleatori. Per di più su un tema che dipende da fattori come la salute dei genitori, il rapporto coi figli, la stabilità, desiderata o meno, del rapporto di coppia. «Il problema principale di queste analisi – spiega Luigino Bruni, professore di economia politica all’Università Lumsa di Roma – è che sono costruite su variabili (qui l’età e la felicità) da cui se ne devono sottrarre altre: la salute, il reddito, la depressione… Mentre nella vita reale queste ci sono eccome». Sui grandi numeri, però, permettono di vedere che l’invecchiamento, di per sé, non è un elemento di tristezza.Ma non è tutto: il pioniere di questi studi è stato l’economista e demografo americano Richard Easterlin, che nel 1974 postulò per primo il paradosso riassumibile nel motto «i soldi non fanno la felicità». E se non sono né i soldi né la vicina vecchiaia, che cos’è che a un certo punto ci fa sprofondare verso la selva oscura della mezza età? «Il crollo delle aspettative», prosegue Bruni. «La felicità è il rapporto tra le aspettative e i mezzi per realizzarle. A trent’anni uno può essere convinto di poter fare cose grandiose, ma quando verso i quaranta si rende conto che ormai non le farà più, le aspettative crollano. E così la felicità». Poi ci si rassegna: «Subentra il principio di realtà: comincia la vita adulta, quella vera». Ed ecco la curva a U.Tutto questo è più evidente nei maschi che nelle femmine, probabilmente perché sono ancora i maschi a sentire di più le ambizioni professionali e «sentirsi competente nel proprio lavoro è importante», incalza Bruni. Perciò non si può nemmeno trascurare la temperie di crisi economica in cui viviamo. Le analisi hanno infatti mostrato che in questi ultimi cinque anni il benessere lavorativo è diminuito in tutta l’Europa meridionale e a farne le spese sono state soprattutto le persone di mezza età, lontane dagli entusiasmi degli esordi e dalle mollezze della pensione, e magari a rischio licenziamento. Per qualcuno lo stesso andamento a U della felicità è osservabile anche nelle grandi scimmie, che non possono essere accusate di carrierismo o di sindrome del don Giovanni. Lo sostiene Alexander Weiss, dell’Università di Edimburgo, che, sempre con Andrew Oswald, un paio di anni fa ha pubblicato sulla rivista Pnas i risultati dell’osservazione del comportamento di 336 scimpanzé e 172 oranghi in cattività. «I nostri risultati – scrivono – implicano che la curva della felicità non sia solo umana e che, anche se può essere spiegata in parte da aspetti della vita e della società, le sue origini si trovino nella biologia che condividiamo con gli altri primati». Insomma, che siano fattori psicologici, sociali e biologici, forse la selva oscura non può essere evitata. Però per rendere il transito meno doloroso si può cercare di evitare confronti col giovane condottiero o col geniale musicista. Pensando che forse ogni “grande maestro” è stato una “giovane promessa”. Ma che di sicuro per tantissimi, a un certo punto, è stato naturale sentirsi nel mezzo del cammino della vita.