la Repubblica, 26 gennaio 2015
Ucraina, il gioco al massacro dove tutti sono colpevoli. Da Putin a Poroscenko
Ogni volta che si profila un tentativo di trovare una soluzione diplomatica alla guerra in Ucraina Vladimir Putin alza l’asticella al di là della quale potrebbe esserci una prospettiva di soluzione. È successo di nuovo in questi giorni, dopo che Federica Mogherini, l’Alto rappresentante per la politica estera della Ue, aveva presentato un ragionevole progetto per riavviare un dialogo. Proposta peraltro subito rigettata dall’intransigente “fronte del Nord” europeo, con in prima linea i Paesi baltici avvolti nei loro ancestrali risentimenti e fermi nel sostenere che la Russia possa solo essere domata con la forza, non convinta con i negoziati.
È un gioco al massacro, nel senso letterale della parola. L’aeroporto di Donetsk, un piccolo gioiellino ricostruito per gli Europei di calcio del 2012, ne è diventato il simbolo. Ora è un ammasso di macerie, attorno e dentro alle quali si combatte una battaglia militarmente insensata, se non per l’alto valore ideologico che viene attribuito da entrambe le parti al possesso dell’area. È stato fatto un paragone con Stalingrado, dove la campagna di Russia di Hitler cominciò a volgere in un disastro, ma sarebbe più appropriato ricordare semmai le guerre balcaniche, dove la commistione tra eserciti regolari e bande paramilitari era un moltiplicatore di ferocia e di odio etnico, che portava a stragi incessanti di civili innocenti.
Putin continua a negare, con la stessa indomita sfacciataggine che lo caratterizza dall’occupazione della Crimea in poi, che le milizie separatiste siano figlie dei corpi speciali russi, così come il serbo Milosevic rifiutava di riconoscere il coordinamento tra l’esercito di Belgrado e le orde barbare del cosiddetto comandante Arkan. Negare, negare e sempre negare era il motto scritto a caratteri indelebili nelle aule del Kgb dove il presidente russo è cresciuto: dalla conquista della Crimea (dove tutti i beni dell’aristocrazia economica ucraina sono stati requisiti con schemi bolscevichi) all’ultima offensiva su Mariupol, che ha aperto una nuova fase del conflitto in questi giorni, passando per l’abbattimento dell’aereo delle linee malesi.
Ma il cinismo di Putin non riesce a mascherare del tutto la sua debolezza. La svalutazione del rublo ha praticamente mandato all’aria il progetto di creare uno spazio economico comune con altre ex repubbliche sovietiche. Si è ribellato perfino uno dei suoi più fedeli sodali, il bielorusso Lukashenko, che è arrivato a dire che il suo «è un piccolo Paese, ma capace di difendersi anche con le armi dalle minacce» del potente vicino (la Russia). Le sanzioni hanno lasciato un segno, nonostante il richiamo, con qualche reminiscenza staliniana, al patriottismo e alla capacità infinita di sopportazione dei russi. La guerra in Ucraina è un’arma di distrazione dell’opinione pubblica (usata alla grande da tv servili e giornali imbavagliati), ma è soprattutto uno strumento politico che serve a Putin per non perdere peso sul piano internazionale. Se recede dal suo obiettivo di un’annessione riconosciuta di fatto della Crimea e di una scissione controllata dell’Ucraina russofona (la Nuova Russia, come viene chiamata dai separatisti) il suo sogno di una resuscitata potenza ex sovietica crollerebbe.
Ma la controparte ucraina non è esente da colpe. Poroshenko e il suo governo non hanno finora mantenuto alcuna delle promesse di riforme dell’economia e della legalità fatte in campagna elettorale. Puntella la sua debole autorità sull’aiuto americano. Ma il suo tentativo di presentarsi come il paladino dell’Europa (ha sgomitato per essere in prima fila della marcia di Parigi dopo l’attacco a Charlie Hebdo) è poco convincente. Anche per lui la guerra è uno strumento di distrazione di massa. Ma l’idea che possa concludersi con una vittoria del debole esercito ucraino è pura utopia.
A questo punto, come accadde per i Balcani, sarebbe necessario che qualcuno imponesse una soluzione negoziata: una nuova Dayton (dal nome della base aerea dell’Ohio dove Clinton, nel 1995, rinchiuse i riottosi presidenti di Serbia, Croazia e Bosnia finché, con le cattive più che con le buone, si convinsero a firmare un accordo). In teoria dovrebbero imporla insieme gli Usa e l’Europa, anche se finora la loro sintonia sull’Ucraina è stata bassa, per non dire nulla. Ma è soprattutto l’Europa che deve trovare dentro se stessa la coesione, il coraggio politico e lo spirito costruttivo per un’azione concertata, mettendo da parte le voglie di rivincite degli uni (il fronte nordico, appunto, sostenuto dagli inglesi) e le timidezze degli altri. Perché l’Ucraina è soprattutto una guerra europea, esattamente come lo erano i Balcani. Ed è l’occasione per creare quella politica estera e di sicurezza che tutti invocano (a parole) dai tempi di Maastricht. Con una differenza rispetto ai Balcani (dove l’Europa fallì). Che oggi c’è un altro fronte, quello islamico, che non ci consente distrazioni.