Corriere della Sera, 26 gennaio 2015
George Frost Kennan, l’ambasciatore un po’ «eretico» molto stimato e poco ascoltato
Sono una studentessa della Scuola Cesare Alfieri a Firenze e mi sto occupando dell’esperienza di George Frost Kennan come ambasciatore in Jugoslavia dal 1961 al 1963. Nel terzo capitolo ho voluto concentrarmi sulle difficoltà che Kennan incontrò nello svolgere la sua missione, a causa della divisione interna nello stesso Dipartimento di Stato statunitense, delle resistenze del Congresso e delle ostilità da parte dell’opinione pubblica. Mi piacerebbe conoscere alcune sue considerazioni sull’argomento.
Alessandra Pinelli
Cara Alessandra Pinelli,
Quando il presidente Kennedy lo sottrasse all’Università di Princeton per restituirlo al servizio diplomatico, di cui aveva fatto parte sino a qualche anno prima, Kennan aveva 56 anni ed era già molto noto per le sue analisi sull’Urss e i sistemi comunisti. Kennedy sapeva che non aveva approvato la creazione della Nato e si era pubblicamente espresso, in particolare, contro l’adesione della Germania alla organizzazione militare del Patto Atlantico. Ma lo stimava, leggeva con piacere le sue analisi ed era convinto che un ambasciatore un po’ «eretico» avrebbe giovato all’immagine della sua presidenza. Delle due sedi che gli furono offerte – Varsavia o Belgrado – Kennan scelse la seconda. Era interessato dalla personalità di Tito ed era convinto che la sua duplice natura, comunista e «non impegnato», facesse della Jugoslavia una anomalia da coltivare, un partner con cui conveniva avere, pragmaticamente, buoni rapporti. Per molti aspetti la Jugoslavia rientrava perfettamente in quella politica del «contenimento» che Kennan aveva inutilmente raccomandato al Dipartimento di Stato nei confronti dell’Unione Sovietica. Fu questa, dal momento in cui mise piede a Belgrado, la linea a cui si attenne.
La storia di ciò che accadde nei due anni della sua ambasciata è raccontata in uno degli ultimi capitoli del secondo volume di «Memoirs 1950-1963», pubblicato nel 1973. Per una buona parte del Congresso, il Paese che Kennan considerava utile alla politica estera americana era semplicemente «comunista», vale a dire un potenziale nemico. Se i rapporti commerciali fra la Jugoslavia e gli Stati Uniti godevano della «clausola della nazione più favorita», occorreva sopprimerla. Se gli Stati Uniti, in passato, avevano venduto alla Jugoslavia qualche vecchio aereo, occorreva impedire che al regime di Tito venissero forniti i pezzi di ricambio. In una prospettiva americana questi erano soltanto colpi di spillo; per la modesta economia jugoslava erano colpi di sciabola. Nelle ricorrenti battaglie di Kennan con il Congresso, Kennedy cercò di aiutare il suo ambasciatore, ma non sino al punto di inimicarsi i «congressmen» di cui aveva bisogno per fare approvare le leggi che gli stavano maggiormente a cuore. Kennan scoprì così quale fosse, nel sistema politico americano, il continuo intreccio tra politica estera e politica interna. Un esempio. Il parlamentare che dipendeva per la sua elezione dal voto di una comunità di esuli croati (spesso collaboratori del regime filonazista di Ante Pavelic), non esitava a proporre leggi o emendamenti punitivi contro la Jugoslavia. Del regime di Tito ignorava quasi tutto, ma sull’arte di conquistare voti e consensi era maestro.
Kennan aveva un altro concetto dell’interesse nazionale. Quando scoprì ancora una volta che Kennedy, messo alle strette, non lo avrebbe protetto dalle incursioni del Congresso nella politica estera, diede le dimissioni. Nel settembre 1952, quando era ambasciatore a Mosca, era diventato, per colpa di una frase imprudente, persona non grata ai sovietici. Undici anni dopo lasciò Belgrado e tornò agli studi perché non era gradito ai politici del suo Paese.