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 2015  gennaio 23 Venerdì calendario

Grecia, la continua evoluzione di Syriza. Il partito nato radicale ora è a tendenza socialdemocratica. Se prima Tsipras chiedeva di uscire dall’euro, oggi sta negoziando con la Commissione e con i maggiori paesi, in vista di un compromesso

Dal 29 dicembre 2014, quando il Parlamento non è riuscito a eleggere un presidente causando elezioni anticipate, la Grecia è tornata al centro dell’economia e dei grattacapi, europei.
Il partito di sinistra Syriza è in testa ai sondaggi e salvo sorprese dovrebbe ottenere la maggioranza. Questo gli dovrebbe consentire di governare alla testa di una coalizione abbastanza omogenea. Syriza non è più il partito radicale degli inizi, che chiedeva l’uscita dall’euro e il default sul debito. Oggi si tratta di un partito a tendenza socialdemocratica il cui programma è difficilmente definibile rivoluzionario. Il suo leader Alexis Tsipras, man mano che le prospettive di vittoria si sono fatte più concrete ha via via ammorbidito i toni e sta già negoziando con la Commissione e con i maggiori paesi, in vista di un compromesso sui punti qualificanti del programma di governo. Tuttavia una parte della stampa e alcuni dirigenti politici continuano a presentare le elezioni greche come un appuntamento con il destino e la possibile vittoria di Syriza come l’inizio della fine per l’unione monetaria.
Quali sono i motivi di preoccupazione? Due sono i punti qualificanti del programma di Syriza. In primo luogo, in caso di vittoria, Tsipras chiederebbe di rinegoziare una parte del debito greco, oggi in grandissima parte in mano a creditori istituzionali. Certo, questo significherebbe per i creditori una perdita da assorbire. Ma, come ha notato anche il Financial Times, è difficile immaginare un’uscita permanente dalla crisi che ci attanaglia da sette anni, se non si prevede di cancellare almeno una parte del debito che sta soffocando la ripresa. Anche il ministro delle Finanze francese ha recentemente convenuto che un qualche compromesso andrà trovato. E con l’economia europea di nuovo in deflazione il costo, anche per i creditori, di una lunga stagnazione, sembra oggi più importante di una perdita associata alla ristrutturazione. Il secondo punto qualificante del programma di Syriza è l’abbandono su scala europea dell’austerità che, sia pure meno stringente che negli anni scorsi, continua a orientare la politica economica europea. Syriza quindi chiede di affrontare il problema di un debito insostenibile, finora nascosto sotto al tappeto, e di prendere atto della necessità di un vasto piano di rilancio dell’economia europea, al di là dei giochi di prestigio del piano Juncker. Syriza può apparire radicale a qualche economista tedesco, ma lo è in compagnia di altri “estremisti” come Paul De Grauwe, il Fondo monetario internazionale, il governo americano, e gran parte della stampa anglosassone: l’economia europea è sbilanciata e nella trappola della liquidità: solo la politica fiscale sarà in grado di tirarci fuori dai guai. Sembra più radicale la posizione di chi, pur avendo sottostimato gli effetti negativi dell’austerità, ne domanda ancora, di chi si ostina a preconizzare interventi sull’offerta per far fronte a una carenza cronica di domanda e di chi si vanta di aver raggiunto il pareggio di bilancio con un anno di anticipo quando l’Europa intera beneficerebbe di un rilancio della domanda in Germania.
Che cosa succederà, quindi, se i “radicali” di Syriza vinceranno? Tsipras, confortato in questo dai sondaggi tra i suoi concittadini, non ritiene l’uscita dall’euro un’opzione. Si siederà al tavolo negoziale per cercare di ottenere per il suo paese una ristrutturazione parziale del debito (le modalità al momento non sono note) e per l’Europa un cambio di politica in senso più keynesiano. Se sul secondo degli obiettivi è opportuno non farsi illusioni, la ristrutturazione con tutta probabilità avverrà. Primo perché sembra essere un evento ineludibile che aspetta solo che siano riunite le condizioni politiche per verificarsi; secondo perché la Grecia negozierà da posizioni di forza. Il suo avanzo di bilancio primario (al netto degli interessi sul debito) prova tra l’altro che i compiti a casa li ha fatti, le consente di non temere un’eventuale sanzione dei mercati, a cui non sarebbe costretta a fare ricorso in caso di default forzato. A ben vedere l’uscita della Grecia dall’euro non conviene nemmeno ai partner europei. Innanzitutto perché sarebbe accompagnata da default e le perdite per i creditori sarebbero significativamente maggiori che in caso di ristrutturazione. Poi perché un’uscita della Grecia dall’euro avrebbe effetti di contagio imprevedibili sulle altre economie periferiche, che non a caso oggi guardano con preoccupazione ai toni ultimativi usati dal governo tedesco. È peraltro probabile che questi toni siano una tattica preelettorale e che in caso di vittoria di Syriza anche Angela Merkel ammorbidisca i toni e accetti di negoziare. È difficile immaginare che l’ortodossia si spinga fino a spingere la Grecia fuori dall’euro. Certo, durante il negoziato ci saranno momenti difficili e tensioni, ma oggi la Bce ha un ruolo più attivo nel sostenere i paesi in difficoltà e il suo programma OMT, che ha recentemente passato un primo vaglio alla Corte di giustizia europea, costituisce una valida protezione contro eventuali attacchi speculativi.
Si lasci quindi la democrazia compiere il suo corso. Un eventuale governo Syriza non provocherebbe un terremoto. Anzi, potrebbe contribuire a smuovere le acque e a rimettere al centro dell’agenda di politica economica misure la cui necessità è ormai ovvia per tutti salvo per chi non vuol vedere.