la Repubblica, 23 gennaio 2015
Gomorra e i sottotitoli. L’impossibilità di tradurre in italiano i dialoghi della serie tv tratta dal libro di Roberto Saviano
Si assuma, come manualistica vuole, che i dialetti siano lingue, e come tali vadano tradotti. Dunque su Rai tre, al sabato sera, passano due serie diverse, parallele e contemporanee: c’è Gomorra la serie per i madrelingua, ovvero per i campani (meglio se napoletani con l’orecchio un poco aduso allo slang camorristico, e a quello giovanilistico), e Gomorra l’altra serie : per il resto degli italiani. Sono accomunate dalle immagini e da una buona parte di contenuti che arrivano a tutti. E poi c’è una profonda bipartizione tra chi conosce il napoletano e chi si deve accontentare dei sottotitoli. A questo punto i napoletani seguono dei caratteri umani scavati molto molto bene. Che hanno una forza neorealistica, e in cui ogni espressione porta in sé una denotazione e una connotazione. E poi c’è l’altra serie, in cui quegli stessi personaggi sono tristemente appiattiti da battute denotative sciolte in una mistura letale di qualunquismo italiano più stereotipo camorristico.
È chiaro che la storia evenemenziale non cambia: quello che accade accade sullo schermo e la forma macroscopica dell’eloquio regge. Ma i personaggi esistono per come parlano. Il lavoro principe dello sceneggiatore è costruire i dialoghi. E questi dialoghi, davvero: sono belli. Quello che si nota è che non sono mai artefatti. Davvero a Napoli si parla così, davvero le espressioni sono quelle, gli idioletti che nascono assomigliano a quelli che si sentono pronunciare.
I “caratteri”, in senso italiano e in senso inglese, sono costruiti in maniera naturale. Ma se il boss Savastano dice che il divano «nun è bbuono» e il sottotitolo recita «non va bene» lo spettatore italofono perde due cose. In primis perde l’elemento segmentale diretto così come gli sceneggiatori lo hanno pensato: la frase è chiarissima: «Non è buono». Trasformarla in «non va bene» significa interpretarla, mica tradurla. E perché lo spettatore deve assumere l’interpretazione del sottotitolatore e non restare aperto alla propria e potersi chiedere «in che senso non è “buono”?». In secundis perde una sfumatura di senso che rende il boss un vero boss: «nun è bbuono» il boss lo potrà dire anche di suo figlio che non è capace di assumere la reggenza del clan (e si può dire di uno che non ha abilità manuali, di un uomo che ha problemi di impotenza): è cioè un giudizio drastico e tranciante che non lascia equivoci. Se il boss dice «non va bene» sembra un arredatore di interni. Se dice «nun è bbuono» sta dichiarando che c’è qualcosa di più grave (al terzo cambio di divano si scoprirà che glieli mandano già imbottiti di microspie) che il suo implacabile istinto ha scovato e bollato.
Oppure: uno scagnozzo insiste affinché Attilio punti una somma di denaro ai cavalli, un terzo lo mette scherzosamente in guardia, lo scagnozzo si difende dicendo «nun o pensa’»: ad litteram «non lo pensare» ovvero «non dargli retta». Il sottotitolo scrive «non ci pensare». Che significa un’altra cosa, no? Significa «sii leggero, non starci a pensar su…».
L’obiettivo dello scagnozzo, certo, è lo stesso: convincere Attilio a puntare. Ma nella frase che dice scorre tutto il braccio di ferro psicologico tra il diavolo e l’acquasanta: chi dovrà ascoltare Attilio? A chi adda pensa’? Non a cosa, ma a chi. Nelle dinamiche interpersonali (di un clan, ma pure di una famiglia, di un gruppo di amici) i giochi di forza sono tutto, e si esplicano sulle persone, non all’interno della propria coscienza. Uno scagnozzo che dice «non ci pensare» è uno psicoterapeuta almeno quanto il suo boss era un designer.
Sono sfumature, si dirà, e certo le sfumature sono tutto solo per chi ama le sfumature. Ma non c’è neppur bisogno di credere, come si va dicendo da molti, che le serie sono i nuovi romanzi, per comprendere che si dovrà badare alle migliori di esse con delle buone traduzioni. E come per le traduzioni non basta un madrelingua, ma ci vuole uno che lavori con la lingua, abbia orecchio per la lingua, la ami, le dia importanza, la curi, sappia come si fa a rendere. Rendere a volte può voler dire anche trasformare: non sempre la scelta più fedele all’originale rende nella lingua di arrivo quel pensiero, quell’idea. Però almeno ci vuole questo: saper riconoscere il pensiero e l’idea.